Alfabeto lombardo
Parole per «viaggiare» tra Adda e Gadda…
di Giangiacomo Schiavi
Parole che diventano luoghi e luoghi che diventano parole. Lettera A: Accademia dei Trasformati. Spuntano Villa Imbonati e i raduni letterari nel salotto dell’omonimo conte, il Parini, il Manzoni e i versi dialettali di Domenico Balestrieri: gh’ è montagn, gh’ è collin e gh’ è pianura…. Siamo già in Lombardia. Manca solo l’acqua, ma è subito lì: A come Adda, il fiume dei cotonifici, delle filande, delle centrali con il ponte in ferro di Paderno, il traghetto di Imbersago, il villaggio operaio della famiglia Crespi. Zoomata a trecentosessanta gradi: ecco le guglie di calcare delle Grigne dove piantano i ramponi i Ragni di Lecco, i sentieri morbidi dei Piani d’Erba, i laghi con le meraviglie di Como, la Brianza delle ville, dei palazzi e delle chilometriche fiere commerciali che fa dire a Carlo Castellaneta: «Non esiste nessun’altra terra italiana così legata al senso della fatica…». Ci si arrampica sulle lettere in questo piacevole Voci di Lombardia (Hoepli Editore) che Franco Brevini ha costruito come dizionario di viaggio nella cultura lombarda. In ogni pagina si finisce in un posto, in un sentiero della memoria. Da giornalista, docente di letteratura e alpinista, Brevini attraversa la regione puntando sul Nord («ho una predilezione per le montagne», confessa) e traccia il primo itinerario utilizzando molte delle parole povere che servono per una prova generale di lombarditudine. E così minga, blasone linguistico del dialetto milanese, pattaja o barlafus diventano pretesto per una geografia identitaria che trova colti rimandi in poeti e scrittori. Dalla lingera di Emilio De Marchi alle carampane del grande Delio Tessa fino ai ghirigori di Gadda, il dialetto lombardo che nobilita uomini-terre-tradizioni è musica e poesia: Brevini lo utilizza da guida per decifrare l’animo e i sentimenti di una regione sulla quale si potrebbe scrivere all’infinito: questo è solo l’inizio. Paesaggi, chiese, monumenti: c’ è l’imbarazzo della scelta. Poi si torna a qualche voce. P, come pòta: un intercalare per ogni necessità che a Bergamo si impara con il biberon, quattro lettere che segnano un’appartenenza: valli Orobiche, of course, sintetizza l’autore. E cosi fino alla lettera Z, in chiusura, con quell’insalata impossibile chiamata zucch e melon, abbinamento proibito che significa anche un invito alla calma, al rispetto dei tempi e delle stagioni, a non mescolare mai il diavolo e l’acqua santa. Saggio consiglio, come lo sono quelli rodati da una solida tradizione. Per intenderci: offelee fa el tò mestee. Detto da non dimenticare, anche se la crisi impone la flessibilità…
(Dal Corriere della Sera, 7/12/2008).
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