Una lingua, una identità

Una lingua, una identità
di LUCIO D'ARCANGELO
«La lingua è della nazione: ogni novità relativa ad essa deve aver la sua sanzione dal consenso pubblico»
Melchiorre Cesarotti

La nostra Costituzione, come è noto, si preoccupa nell'art. 6 di tutelare le minoranze linguistiche, ma si dimentica di dichiarare l'italiano lingua ufficiale della Repubblica, come se fosse non la lingua d'Italia, ma una lingua in Italia, che non mette conto di nominare neppure per inciso. Non c'è quindi da meravigliarsi se dal dopoguerra ad oggi non c'è stata nessuna politica a tutela della lingua nazionale. Era scritto, in qualche modo, nel dettato costituzionale. Non sono mancati invece i provvedimenti a tutela delle minoranze linguistiche (Alto Adige, ecc.) e fin qui non ci sarebbe nulla da ridire, se il concetto di “minoranza linguistica” non avesse ricevuto un'applicazione molto più estensiva rispetto al passato e inedita sotto molti aspetti con la legge 15 dicembre 1999, n. 482, Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche, che include fra dette minoranze anche il friulano e il sardo, che non è un idioma unitario ed è molto più vicino all'italiano di quanto non sia, per esempio, il piemontese, che forse a maggior titolo potrebbe rivendicare lo stesso diritto. Ma non vado oltre.Mi limiterò a citare quello che scriveva Giuliano Bonfante : ((L'Italia ha, insieme con la Germania, il privilegio di un'unità linguistica pressoché perfetta. Quasi tutti i dialetti parlati in Italia derivano dal latino e sono quasi tutti specifici del nostro Paese, cioè non sono parlati fuori d'Italia» Evidentemente, si è voluto intaccare questa unità. Si è tentato, in altri termini, di minare le basi storiche della nostra lingua, una lingua, possiamo dire, che non lo meritava, perché non è stata strumento di alcuna egemonia, come è avvenuto in altri Paesi, e si è affermata meriti esclusivamente culturali, e comunque per spontanea adesione. Tanto più che i provvedimenti della legge 482 non sono bilanciati da altri in favore della lingua nazionale, né all'interno del nostro Paese, né quando essa si trova in condizioni minoritarie, come ha ben notato, commentando la legge in questione, l'ex presidente dell'Accademia della Crusca, Giovanni Nencioni.Questa prassi legislativa che, se attuata conseguentemente, finirebbe per trasformare l'italiano in un dialetto in Italia e comunque in una lingua “seconda” è stata accompagnata negli ultimi anni da un'offensiva mediatica che presenta-va l'italiano ormai ridotto ad un “dialetto europeo”, soccombente di fronte alle al-tre lingue e destinato in un futuro più o meno prossimo ad essere soppiantato dall'inglese. L'auspicio, neppure tanto velato, è che l'Italia diventi un Paese co-me il Ghana o magari come l'India (in cui peraltro l'inglese è lingua semi-ufficiale, parlata solo dal 5 per cento della popolazione).Questa tendenza a declassare la lingua nazionale che dall'interno si ripercuote all'esterno è dovuta ad un misto di demagogia e snobismo intellettuale, che ci ha reso (negativamente) unici in Europa , ed è quanto di più autolesionistico si possa immaginare in un momento in cui nel mondo è in atto una vera e propria “guerra delle lingue” 2, nella quale si giocano tutte le residue possibilità di affemazione o sopravvivenza dell'Europa e delle nazioni che la compongono 3.Così oggi, trovandoci a parlare di tutela o difesa della lingua nazionale, ci ritroviamo nella stessa identica situazione che spinse Dante Alighieri a scrivere nel Convivio un capitolo .A perpetuale infamia e depressione de li malvagi uomini d'Italia che commendano lo volgare altrui e lo proprio dispregiano» (XI, 1). Ed è una duplice iattura, perché lo stesso concetto di tutela della lingua è nato in Italia con Cosimo de' Medici e l'Accade mia della Crusca, che è stata il model% di tutte le altre Accademie sorte in Europa e fuori. La Francia ha fatto della lingua un'istituzione nelle istituzioni, l; Gran Bretagna con il Commonwealth h; adottato tutta una serie di provvedimenti, anche restrittivi, per garantire l'uso la diffusione dell'inglese. Nel 1944 tutti Paesi scandinavi hanno istituito consulti nazionali per la cura o cultura della lingua (language cultivation) e nel 1978 stato costituito a Oslo un Segretariato per le lingue scandinave con il compito di favorire una politica linguistica comune anche a causa della massiccia pene trazione dell'inglese.Da noi, chissà perché, quando qua] che incauto parla di tutela della lingua gli viene ricordato il fascismo. Si citane le parole straniere bandite durante i ventennio, ma ci si dimentica della Francia che non nel 1930, ma oggi, rifiuti persino la parola computer (tanto chi David Crystal ha dovuto ricordare a francesi che computer è stato coniato su latino computare). Signora la Spagna; che ha perfettamente adattato o sostituito tutti i termini anglosassoni (compute è ordenador e líder come è noto noi viene né scritto né pronunciato all'inglese). Si ignorano, come si è già detto, Paesi scandinavi e si finisce per inalbera re un proibizionismo che oltretutto, sto ricamente, non fu nemmeno una prerogativa del fascismo, ma fu applicato, ad esempio, ben più severamente dal governo britannico a Malta, dove fino al 1970 era vietato l'uso del dialetto maltese a scuola durante le ore libere (stessa sorte era toccata naturalmente all'italiano). Inutile aggiungere che misure del genere dipendono da condizioni storiche ormai superate.Non crediamo che la lingua si tuteli con i pubblici divieti: non è il fumo. Non crediamo ad uno Stato che pretenda di riformare la lingua in base a criteri per così dire, etici: lo fece il fascismo imponendo l'uso del voi e lo hanno fatto più recentemente e più disinvoltamente le Raccomandazioni per un uso non sessi-sta della lingua italiana (Roma, Poligrafico dello Stato, 1986), curate da Alma Sabatini e indirizzate alla scuola e all'editoria scolastica con l'avallo dell'allora presidenza del Consiglio. Non pensiamo che la lingua sia un materiale plasticahile a volontà, come scrive Nencioni a proposito di queste Raccomandazioni. in cui si immagina che si possa dire la generale, la tenente, la carabiniera, e che la gente accetti o apprezzi queste amenità 4. Le imposizioni in fatto di lingua, anche quando sono state decise da regimi autoritari che teoricamente aveva-no tutta la forza per farle rispettare, o sono state inani, come è avvenuto con il fascismo, o hanno ottenuto l'effetto contrario, come nell'ex Unione Sovietica, dove l'insegnamento obbligatorio del russo nelle scuole provocò una reazione di rigetto negli stessi Paesi slavi.In quanto al disegno di legge promosso dal senatore Andrea Pastore per la costituzione di un Consiglio Superiore della Lingua Italiana, è bene ricordare che l'idea risale addirittura al Settecento e che realizzarla oggi significa riparare ad una lunga serie di omissioni. Il Saggio sulla filosofia delle lingue (1785) di Melchiorre Cesarotti, uno dei testi più importanti della cultura linguistica settecentesca, fu scritto con il preciso scopo di costituire un Consiglio Nazionale della Lingua, che rimase lettera morta sia per-ché il monopolio della Crusca sulla lingua era ancora forte e sia perché l'Italia non aveva ancora quell'unità politica che poteva favorirne la realizzazione. Dopo il 1860 la preoccupazione prevalente del giovane Stato unitario fu quella di fare della lingua un patrimonio comune puntando fondamentalmente sull'istruzione, ed anche il fascismo, che attuò, come è ben noto, una sua politica di tutela della lingua, non istinti, occorre sottolinearlo, nessun organo equiparabile a quello di cui si parla.Fu la Fr ancia, come è noto, ad istituire un tale Consiglio, ed al modello francese si richiamò nel 1972 Giacomo Devoto, osservando che <­in fatto di lingua l'attività legislativa non basta: occorre quella esecutiva». Ma i suoi appelli caddero nel vuoto e la proposta si arenò davanti all'indifferenza dei governi in carica ed alla preconcetta ostilità dell'intellettualità dominante.
Nel marasma degli anni Settanta fu Giovanni Nencioni, nella sua qualità di presidente dell'Accademia della Crusca,a tenere alta la bandiera della tutela della lingua, intervenendo più volte sulle questioni più dibattute; ma ben conscio che l'Accademia non aveva più l'unità di una volta, essendo »incerta e divisa sui concetti normativi», né i necessari ,poteri decisorie.Lo stesso Nencioni richiamava l'attenzione sul fatto che ,,da professori, partiti e parlamentari erano stati proposti, e giacevano alla Camera e al Senato, disegni di legge intesi a rendere lo Stato corresponsabile della lingua nazionale, a suscitare in altre parole – una coscienza politica della lingua e una politica linguistica», lamentando che «l'Italia non disponesse, nel proprio apparato governativo, non dico di ministeri, ma di uffici destinati alla lingua nazionale, né di un Consiglio Superiore della Lingua, come in Francia»'. L'abbandono in cui è stata colpevolmente lasciata la nostra lingua non è sinonimo di spirito democratico come alcuni credono: il laissez faire linguistico non sana, ma approfondisce le divisioni sociali, tra chi per esempio conosce le 400 parole inglesi per far carriera (è il titolo ironico di un libro del '77, di Giacomo Elliot), e chi non le conosce; tra chi sa districarsi nei labirinti del linguaggio burocratico e chi no: sono queste le vere disuguaglianze sociali nel linguaggio e non quelle che si immaginano coloro che hanno ancora una concezione folkloristica della lingua.Tutto questo non si sana con il laissez fairelinguistico, ma insegnando l'inglese vero nelle scuole, riformando il linguaggio burocratico, ecc. Gli istituti linguistici appartengono, come quelli economici e giuridici, al inondo dello spirito pratico, nel suo significato superiore», scriveva Giacomo Devoto, che per tanti anni diresse con Bruno Migliorini la rivista Lingua nostra, con cui la tutela della lingua fu posta per la prima volta su basi scientifiche, anticipando di molto l'odierna sociolinguistica. La questione del purismo fu affrontata nei suoi giusti termini, come il polo di una tensione, di una dialettica, che costituisce la vita stessa delle lingue e dove la conservazione non è meno vitale dell'innovazione. La dottrina di Migliorini rappresenta un modello non superato di ciò che oggi si in-tende per language planning.Basti pensare alle molte parole da lui coniate, non cadute nell'oblio come tan-te altre, ma tuttora vive e vegete: regista per sostituire régisseur, apprendistato per apprentissaggio, autista per chauffeur. Quante volte viene adottato un termine straniero perché non si è provveduto in tempo a sostituirlo con un altro più adeguato, più italiano, cioè più consono alla struttura della nostra lingua?Gli attuali neoproibizionisti vietano di fare ciò che la lingua parlata e popolare fa spontaneamente e naturalmente, pur senza avere la forza per far diventare di uso comune le sue creazioni, se non in casi molto limitati. Penso all'impronunciabile (per noi) parola shrapnel (granata) trasformata dai soldati italiani in sgrappolo o ai neologismi inventati dagli operai della Fiat per indicare le parti dell'auto, per esempio cruscotto, a cui oggi sarebbe facilmente preferito un termine inglese.«Non si può agire sulla lingua se non assoggettandosi alle sue tendenze», scriveva Migliorini. Intendiamo mettere a frutto questo insegnamento: umiltà scientifica, quindi, e umiltà nel ricercare il consenso delle istituzioni, della scuola, della società intellettuale e civile; ma inflessibilità nel denunciare l'appiattimento del discorso culturale nel nostro Paese, dove per colpa di un certo infantilismo ideologico, duro a morire, si deve sempre distinguere tra nazione e nazionalismo, autorità e autoritarismo, tutela della lingua e pedanteria puristica, come se Bruno Migliorini e Giacomo Devoto, invece che indiscussi protagonisti della linguistica italiana del Novecento, fossero stati allievi del padre Cèsari; o come se la Francia avesse preso in prestito dal fascismo la propria politica linguistica.L'organismo che andiamo a proporre svolgerà fondamentalmente un'attività di studio, proposta ed orientamento per restituire agli italiani il senso ed il gusto della loro lingua, per formare quella coscienza linguistica di cui fanno sfoggio i francesi e che oggi avvertono acutamente anche gli inglesi in un'epoca in cui la loro lingua rischia di sfuggirgli di mano.La cosa più importante per la tutela di un bene così delicato come la lingua è la sensibilizzazione: sensibilizzazione di tutti quei settori che contribuiscono a formarla e ad orientarne l'uso: ciò che ormai ci viene richiesto da larga parte dell'opinione pubblica.Siamo contrari ad ogni intervento che tratti la lingua comune in termini puamente logici, tipo caccia agli errori, per intenderci, o peggio, ideologici. Ma non siamo neppure partigiani del laissez-faire, che si risolve nel favorire tutte quelle tendenze che, come ha scritto Guiraud, spezzano l'unità linguistica e dividono la comunità.
Non crediamo che una lingua possa mantenersi senza un ancoraggio grammaticale o che le norme grammaticali possano ricavarsi unicamente dal parla-to. Mettere da parte le regole del gioco o cambiarle continuamente è fonte di guai, non soltanto nella lingua. Non crediamo in una crescita linguistica abbandonata a sé stessa, senza cioè tutti quegli strumenti che in tutti i Paesi europei sostengono, promuovono e diffondono, all'interno e all'estero, la lingua nazionale. Non crediamo in uno spontaneismo che promuove di fatto a maestri d'italiano conduttori e cantanti più o meno impegnati.Non intendiamo negare quelle dinamiche linguistiche regionali che hanno concorso sin dagli albori a fare dell'italiano quella lingua ricca e flessibile che conosciamo. Ma non pretendiamo neppure che gli alunni del Logudoro imparino a scuola il dialetto cittadino, che non hanno alcun bisogno di apprendere, evidentemente, e trascurino una lingua di più ampia circolazione sociale, come quella nazionale, che permette loro un accesso in condizioni migliori al mondo del lavoro.Non vogliamo negare la necessità di imprestiti e neologismi, che costituiscono la vita normale di tutte le lingue. Ma c'è un punto critico oltre il quale i dialettalismi incontrollati, i neologismi inutili e strampalati, l'alluvione di anglismi bruti, non assimilati cioè, creano un italiano “straniero”, come è stato osservato, appesantendo ed oscurando la comunicazione (un pò come quando un fiume viene intorbidato e inquinato) ed indebolendo la coscienza linguistica, che è poi anche la coscienza di far parte di una patria comune.Il Consiglio prevede tra i suoi membri anche un rappresentante dell'Accademia della Crusca, storicamente legata al purismo, come si sa, e roccaforte di quel toscanesimo che fu poi sostanzialmente seguito dallo stesso Manzoni. Il purismo, che come diceva Leopardi, voleva chiudere in perpetuo le fonti della lingua, era in errore, ma rispondeva ad un'esigenza effettiva: quella di garantire la condivisione o condivisibilità di un patrimonio linguistico comune, e questa è una lezione valida ancora oggi.Certo, fare un vocabolario non significa fissare per le parole un significato valido una volta per tutte come intendevano fare i puristi – sarebbe come tenta-re di imbrigliare le onde del mare ; ma non significa neppure fame un repertorio di “voci” raccolte indiscriminatamente o basate su statistiche che saranno con futate il giorno dopo. Compilare un vocabolario significa scommettere sulla durata e vitalità delle parole e questo non si può fare se non si ha nessuna cognizione della lingua nazionale e si pensa che possa contenere tutto e il contrario di tutto.Oggi l'Accademia non ha più quella visione unitaria della “questione della lingua” che in passato aveva rappresentato la sua forza (“divisa e incerta sui concetti normativi” la rappresentava l'ex presidente Nencioni), ma può offrire al Consiglio un contributo insostituibile e prezioso di esperienza scientifica anche per la presenza nel suo seno di illustri studiosi.Il Consiglio intende prestare la propria opera in ogni settore che tocchi, direttamente o indirettamente, l'uso della lingua nazionale, a cominciare da quelli dove maggiore è stata la sensazione di abbandono da parte delle istituzioni, e cioè la scuola, l'amministrazione pubblica, il mondo dell'informazione. Il Consiglio svolgerà la sua attività attraverso comitati di studio di cui saranno chiamati a far parte, anche in veste di semplici consulenti, autorevoli rappresentanti del mondo intellettuale ed accademico: scrittori che hanno contribuito con le loro opere a tenere alto il prestigio della nostra lingua; studiosi che nell'ambito delle loro discipline si sono distinti per l'attenzione dedicata alla lingua nazionale; linguisti la cui autorità scientifica non sarà valutata certamente in rapporto alla “visibilità”. Auspichiamo una partecipazione che sia la più larga e qualificata possibile, in modo che si possa contribuire a costruire una lingua veramente comune, rispettata e rispettabile, che tutti gli italiani possano sentire propria.Secondo il classico paragone di Warburg, la lingua è come un dipinto nel quale ogni macchia di colore ha una sua funzione, e non si può togliere o aggiungere nulla senza turbarne l'effetto d'insieme, l'armonia. Ciò vale soprattutto per la nostra lingua, lingua d'arte, come ancora la definiva Spitzer, che ha rappresentato in Europa quel sogno di una superiore civiltà identificato di volta in volta nelle accademie rinascimentali, nell'Arcadia, ne Le Grazie foscoliane e nella stessa Accademia della Crusca. Da ciò derivò un immenso (e non del tutto esplorato) accumulo di poesia e di generi poetici paragonabile agli innumerevoli quadri italiani dispersi nei musei di tutto il mondo: una ricchezza di cui certa critica romantica, come è noto, ha tentato di sminuire il valore e che forse solo D'Annunzio ha colto in tutta la sua portata 6.Ma la lingua non è soltanto un “bene culturale”: è anche un bene sociale di inestimabile valore. Non voglio, però, essere frainteso. La lingua non si limita a riflettere passivamente la società, come se fosse opera di automi e non di esseri pensanti. Non esistono disuguaglianze linguistiche che siano negative in quanto linguistiche, ma in quanto vengono sentite come tali dai parlanti, e queste differenze in Italia non hanno mai avuto né l'importanza né il valore che hanno, per esempio, in Inghilterra. Esistono invece degli usi antisociali del linguaggio ed è di questo che dovremmo preoccuparci, più che di chiamare il bidello “operatore scolastico”.Ciò significa che il Consiglio che pro-poniamo non ha le finalità di un'accademia, ma opera nell'ambito di una politica linguistica generale. E un organismo scientificamente attrezzato, ma al servizio dei cittadini, che non sono né sordi né muti, come alcuni credono. Sarebbe impossibile citare tutte le testimonianze di attaccamento alla nostra lingua che si leggono sui giornali o nei siti più popolari di Internet: testimonianze che sconfessano quanti ne hanno predicato per tanto tempo l'impopolarità.Le attività previste nella proposta di legge intendono rispondere ad esigenze avvertite non soltanto in ambito istituzionale, ma anche nella società civile, disorientata e sopraffatta dall'anarchia in cui oggi sembra vivere la nostra lingua senz'altro modello che il bla televisivo.Negli ultimi anni, in assenza di qualunque interessamento da parte dei governi, sono sorte molte associazioni spontanee, composte da intellettuali e cittadini, che mettono la lingua al centro dei loro programmi. Ne cito solo due: l'Associazione La Bella Lingua e il Manifesto in difesa della Lingua italiana promosso da Franco Manzoni e Filippo Ravizza, diffuso attraverso l'università e oggi anche sul web.Recentemente i giornali hanno parlato del simpatico movimento per la difesa del congiuntivo di una scuola di Treviso.Non entro nello specifico della questione, divenuta emblematica di un certo modo di parlare, trasandato e supponente. Ma credo che la scuola abbia una funzione primaria nella regolamentazione dell'uso. Ci si può chiedere cosa sarebbe oggi l'inglese senza le public schools (private) che, si può dire, hanno creato lo standard. Oggi gli insegnanti seguitano a sentirsi smarriti di fronte a quello che è stato definito un uso selvaggio della lingua, e reclamano un maggiore rispetto della lingua nazionale a tutti i livelli, «come garanzia (cito G. Nencioni) che l'unità linguistica laboriosamente conquistata sul piano della lingua scritta non vada perduta nel parlato.. (La scuola, per fortuna, non è solo quella dei cortei e delle occupazioni col k).In un libro del 1988, Italiano straniero, con sottotitolo Dizionario delle parole straniere nell'italiano attuale, autore Mauro Magni, troviamo queste osservazioni: «Sapere l'italiano non basta più per capire l'italiano. E incredibile, ma è così.. A questo Italiano straniero sono seguiti tanti altri titoli, che mi limito a citare, perché eloquenti da sé: Parole a buon rendere, Lingue sciolte Incomunicabilità di massa con riferimento ai media; Dizionario dell'antilingua, Italiano corso di sopravvivenza; Ricordi d'italiano. Credo non ci sia bisogno di commento.Tutto questo ha un senso ed il senso è che, interrotto il rapporto con la tradizione letteraria, l'italiano si sta trasformando in una lingua “debole”, incerta, appiattita sui gerghi tecnici,burocratici politici, insidiata da anglismi e pseudoanglismi, inquinata da parole libere e parole di plastica (lavoratoriale, criticità). In un libretto, intitolato ironicamente De Vulgari Ineloquentia, (Liviana, Padova, 1978) del dantista svizzero Remo Fasani si legge: 'Questo libro è il prodotto di un disagio che la lingua italiana, come si parla e scrive ai nostri giorni, mi veniva procurando, disagio che diventava più acuto se confrontavo l'italiano d'oggi con il francese e il tedesco d'oggi. Mi pareva che l'italiano, a differenza del francese e del tedesco, non fosse più una lingua, ma un linguaggio: parola che significa tante cose, dal dialetto al gergo della scienza, fino al loro uso mescolato.Vogliamo quindi che l'italiano torni ad essere una lingua. Il nostro proposito è quello di unire tutte le forze in gioco: gli insegnanti, la società intellettuale, la società civile, di cui occorre riconoscere il disagio senza respingeme le esigenze in nome di una scienza alla quale, a sentire certuni, i comuni cittadini non sarebbero abilitati.
La lingua è un bene comune alla cui conservazione ed evoluzione tutti possono e debbono contribuire, anche se in prima linea sono chiamati coloro che rappresentano la vita intellettuale del Paese, e non mi riferisco naturalmente ai soliti profeti di sventure. Come scriveva Cesarotti, la lingua è della nazione e nessuno può averne il monopolio.Dante vedeva la lingua volgare come una specie di pietra di paragone in cui tutte le parlate degli italiani vengono soppesate e comparate, e nel Cinque-cento l'italiano era una realtà già in gran parte “federativa”, a cui avevano dato il loro contributo numerosi scrittori non toscani. Si può dire che il destino unitario e federale dell'Italia fosse già scritto nella sua lingua, la cui lunga storia è st ata sintetizzata da Devoto in questi termini: «grammatica toscana e vocabolario italiano.. Oggi che i nuovi statuti rendono le regioni parte organica dello Stato, la lingua è chiamata a svolgere ancora quella funzione di “cemento unitario” che ha avuto nei secoli, continuando ad essere, come voleva l'Ascoli, un necessario strumento di crescita culturale.Occorre una politica linguistica che riplasmi l'italiano in accordo con le nuove esigenze, ma salvando la continuità con il passato e con i suoi padri fondatori: Dante, Manzoni e D'Annunzio. Oc-corre difendere e promuovere dappertutto l'uso della “buona lingua”, che non è un'invenzione dei puristi, come generalmente si crede, ma è al contrario un'esigenza «connaturata alle origini stesse della nostra linguae, come affermava Benvenuto Terracini, a cui non faceva velo nessuna ideologia. Soltanto valorizzando la nostra lingua, difendendola cioè all'interno, potremo poi pensare di promuoverla all'estero e di godere di un rapporto paritario con le altre lingue dell'Unione.L'italiano conta 57 milioni di parlanti, più della Francia e della Gran Bretagna, con un bacino potenziale di utenza valutato sui 120 milioni di parlanti. È tra le lingue comprimarie dell'Unione (nel 1980 un'inchiesta della stampa francese le assegnava il terzo posto come possibile “lingua europea”) ed una delle lingue ufficiali della Confederazione elvetica. La Corsica, che fino al 1768 faceva parte della Repubblica di Genova, è stata ed è in parte di lingua italiana. L'italiano, infine, è ancora vivo a Malta e non è del tutto sparito nelle ex-colonie africane. Inoltre è una delle lingue più conosciute nell'ambito del Mediterraneo.L'italiano, giova ripeterlo, è una gran-de lingua di cultura: l'arte, l'opera lirica e in tempi più recenti. la moda e il cine-ma, hanno parlato italiano al mondo, senza contare l'Umanesimo e il Rinasci-mento, conosciuti e studiati dappertutto. Secondo una statistica della Berlitz School l'italiano è una delle 8 lingue più studiate nel mondo: dopo inglese, francese, tedesco e spagnolo, ma prima di giapponese, olandese e portoghese. Nel commercio è settima, dopo l'arabo e il portoghese, ma è ancora tra le prime dieci, seguita da olandese e indonesianoVogliamo cancellarla dal club delle più importanti lingue del mondo e farne una lingua morta?Credo sia giunto il momento di raccogliere il vibrante appello rivolto nel 1983 da Giacomo Devoto alle istituzioni per salvare la lingua dallo snaturamento, dall'anarchia, e promuovere la coscienza che essa è un bene sociale, affidato alla tutela dei cittadini e dei governi che li rappresentano. Credo che costituire ilConsiglio Superiore della Lingua Italiana significhi anche onorare la memoria di coloro che come Devoto sono stati i maestri di tutti noi.
Note
1Accademico dei Lincei, glottologo di fama inter-nazionale. di cui mi onoro di essere stato allievo all'Università di Torino.E il titolo di un fortunato libro di Louis-Jean Cal-vet, a cui sono seguiti La guerre des Lang.us en Europe di Yvonne Bollman (Bartillat, Paris, 2001) e Words of the P)rld di Abram de Swaan (Blackwell, Oxford, 2001), che disegna il sistema di riferimento delle lingue del mondo, senza contare Linguistic Imperialism di Robert Phillipson (Oxford University Press, 1992).
Dalle graduatorie fornite anno per anno dall'Unescoper le principali lingue europee emerge chiaramente il primato di francese, tedesco e spagnolo, con l'inglese che tende a diventare una “lingua franca”. Il francese mantiene le sue posizioni in Canada per esempio, in Africa, ed il tedesco, che domina nell'Europa orientale, è presente perfino nel continente africano, mentre, come si sa, l'italiano in Somalia è ormai marginalizzato. Non parliamo dello spagnolo che minaccia la supremazia dell'inglese perfino negli Stati Uniti. Anche lingue minori come il danese cercano il loro rilancio internazionale. e si attrezzano per limitare i danni della globalizzazione linguistica. Solo l'italiano, secondo certuni, dovrebbe rassegnarsi a sparire dalla scena.
4. Visto che il genere grammaticale viene confuso con quello naturale, o sessuale, si dovrebbe an-che raccomandare per equità di dire “il sentinel-lo” e non “la sentinella”, se proprio non si vuole restaurare il neutro, che non offende nessuno.
5. G. NENCIONI, “Società, lingua, Stato” (1994) in G. Nencioni, Saggi e memorie, Scuola Superiore Normale di Pisa, 2000.
6. Nella presentazione di una collezione di poesia. Feronia, dell'editrice Res si legge: »Della poesia italiana si rileggono ancora, restringendo sempre più la cerchia dei titoli, le opere dei cosiddetti “maggiori”. Oppure, quale presunta alter-nativa, si esplorano temi o autori marginali, pre-tendendo che questa sola condizione d'oblio ne faccia di per sé oggetto di interesse. Ma dimenticato non è tanto ciò che sta ai margini della nostra tradizione poetica quanto il suo centro stesso […1 Contrariamente a quanto vuole la con-danna romantica della finzione pastorale, proprio nell'ispirazione hucolica, in cui è operante con particolare forza il richiamo alla tradizione classica, la nostra poesia si fa espressione di una coscienza animata da un pensiero critico verso il presente: il Rinascimento italiano, infatti, all'esistente contrappone non l'inesistente Utopia, ma l'Arcadia, luogo mitico, certamente immaginario, ma le cui immagini sono sostanziate dallo spirito della civiltà antica».


LICIO D'ARCANGELO, linguista.
da Edizione n°5
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