Troppe sigle astruse e il pubblico fugge

Troppe sigle astruse e il pubblico fugge

Le guerre commerciali sono anche e soprattutto guerre di parole.
E le imprese tecnologiche sanno molto bene, come insegnava Ludwig Wittgenstein, che il linguaggio è una forma di vita: dunque entrare nelle sue pieghe significa intercettare le abitudini dei consumatori e i loro comportamenti quotidiani.
Così, Google nel mondo anglosassone è divenuto perfino un verbo (to google, “cercare”) e parole come iPod o YouTube si sono imposte nell’uso comune, venendo a indicare, anche oltre il loro significato specifico, tutta una tipologia di servizi e prodotti. Quasi un modo d’essere.
Ma non sempre le cose si dispongono secondo chiarezza: perché, anzi, la lotta per il dominio del mercato (e degli immaginari) sta generando una pletora di terminologie antagoniste, nessuna delle quali riesce a spiccare sulle altre. E il sogno dell’Esperanto, che è anche il sogno di un mercato omogeneo e pacificato, si infrange contro una montante varietà di gerghi e tecnicismi, tutti rigorosamente anglofoni, la cui stridente giustapposizione dà ragione all’allarme di quanti gridano al pericolo numero uno: la tecnoBabele.
Il marketing rischia così di ritorcersi contro le sue stesse fonti, ovvero le imprese, spandendo una sorta di odierno “latinorum” in stile Don Abbondio, dove ciascuno tenta di portare acqua al suo mulino, creando tuttavia confusione e sconforto nei consumatori e nella stessa agguerrita compagine degli addetti ai lavori.
È qui d’obbligo un esempio classico, che riguarda i nuovi standard di dvd. Se, facendo un passo indietro, il vecchio caro VHS si impose anche a livello terminologico sul Betamax, lo stesso non si può dire per i due antagonisti che si contendono ora il mercato dei supporti, cioè lo HD Dvd e il Bluray Disc.
È ancora troppo presto perché uno dei due prevalga? Forse, ma l’equilibrio di forze e la vastissima mole di investimenti da entrambe le parti fanno pensare a uno stallo, con ampie ricadute sul lucroso mercato dei costosi lettori, che punta ora con fatica a dispositivi in grado di leggere entrambi i tipi di disco.
Più in generale, i dialetti della tecnoBabele, che impastano sigle e neologismi, sembrano disporsi secondo tipologie precise. Ecco qualche esempio assai comprensibile, dove il livello di difficoltà è ancora molto basso: oltre ai nomi di battesimo dei singoli prodotti, il più squillante è ora iPhone (il telefonino della Apple messo in vendita qualche giorno fa negli Usa), vi sono i termini strettamente tecnici, come Dvbh, cioè lo standard per i contenuti televisivi sui telefonini, o il più accessibile VoIP, che è il telefono via Internet; poi quelli che si riferiscono a gerarchie e funzioni aziendali, come CIO, cioè Chief Information Officer, il responsabile IT di un’azienda; infine quelli più concettuali e programmatici, come free software, social networking o Web 2.0.
Parole, quelle appena menzionate, che sono per lo più già entrate nei dizionari ufficiali, ricevendo una decisiva consacrazione. È significativo, a tal proposito, che il celebre linguista Tullio De Mauro, nel suo Dizionarietto di parole del futuro, offra cittadinanza legale a ben sei termini di natura tecnologica, sugli ottantaquattro neologismi presentati nel bel volumetto: tra questi, vi sono vlog (ovvero un video blog) e meetup (raduno militante che si vale del passaparola su Internet, De Mauro fa l’esempio del sito di Beppe Grillo).
Ma accanto a queste parole che nel linguaggio ufficiale riescono ad avere il permesso di soggiorno, ve ne sono decine di altre che vivono in clandestinità: salvo essere poi scovate e trascinate a forza in qualche glossario d’emergenza.
Anche un recente dossier del Financial Times, dal sintomatico titolo Parole, l’ultima frontiera, lamenta l’incipiente caos linguistico causato dall’eccesso di gergo nei dipartimenti IT delle compagnie tecnologiche, tanto al loro interno quanto nel rapporto con gli utenti. In particolare, il dossier sottolinea la mancanza di uno standard terminologico nell’industria dell’hitech, con la conseguente proliferazione di sinonimi e di vocaboli equivalenti: un carburante formidabile per la miscommunication.
Il rapporto bacchetta i dirigenti d’azienda, ammonendo sugli effetti economici della tecnoBabele: competitività ridotta, scarsa capacità decisionale dei board. Ma cosa fare? Il quotidiano propone alcuni consigli. In primo luogo, il responsabile delle risorse IT dell’impresa deve stare mentalmente dalla parte degli utenti: abbia, dunque, orecchie sensibili e ostili ai vocaboli impervi. In secondo luogo, il direttore delle risorse umane deve separare in modo tassativo gli addetti dei settori informatici dai clienti; più radicalmente, deve perseguire l’estinzione in azienda dei compiaciuti depositari del tecnogergo (i cosiddetti “geeks”). In ultimo, si sottolinea l’esigenza di estirpare l’opacità linguistica sin dalle scuole superiori e dalle università: e gli insegnanti hanno qui un ruolo decisivo.
Ma anche la Rete, specie per le necessità immediate, può fornire qualche buon antidoto: come il Digital Business IT Glossary, un prontuario antipanico per il businessman, messo in Rete dal Financial Times (www.ft.com/dbglossary), con circa 350 vocaboli a vario titolo indigesti. C’è poi la celebre Wikipedia, specie nella versione inglese, che nella spiegazione dei termini tecnologici è davvero imbattibile, forte della sua anima collettiva: dove il linguaggio si frantuma e torna poi a ricomporsi.


di ANDREA RUSTICHELLI

La Repubblica- “Affari e Finanza”

09/07/07

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