QUALCHE MESE FA LUIGI CASTALDI HA SCRITTO UN BELLISSIMO ARTICOLO SULL'ESPERANTO, CHE CREDO NON SIA MAI STATO PUBBLICATO (DOVEVA USCIRE SULL'”INDIPENDENTE”). PER FORTUNA LO SI PUO' LEGGERE NEL BLOG DI CASTALDI “MALVINO”.
19 Ottobre 2004
Un secolo di esperanto
Con in tasca un soldo che non avrò bisogno di cambiare a ogni frontiera, ne attraverserò cento, ciascuna rimaneggiata cento volte da sanguinosissime guerre. Con quel soldo potrò avere un bicchiere d'acqua in tutta Europa, basterà metterlo sul bancone e chiederlo. Dirò che ho sete, che voglio trincare, o trinken, o trinquer, o drink. Già, io e quell'uomo dietro il bancone abbiamo una comune radice giudaico-cristiana e diamo il valore dello stesso soldo a quel bicchiere d'acqua. Abbiamo fatto un po' di fatica a intenderci, certo, ma adesso io ho bevuto il mio bicchiere d'acqua e lui ha intascato il suo soldo, siamo due europei appagati. E sì che un'altra radice in comune l'avevamo: era trink-, pare poco? Non parve poco a Louis-Lazare Zamenhof, un polacco che nel 1887 con lo pseudonimo di Doktoro Esperanto (“che spera”) pubblicò il risultato di certi suoi studi in un volume intitolato Internacia Lingvo, proponendo trinki. Tutti in -i, infatti, finiscono i verbi all'infinito in esperanto, la lingua inventata dallo Zamenhof, con desinenze tutte in -as al presente, in -is al passato, in -os al futuro, in -u all'imperativo e in -us al condizionale-congiuntivo. “I sacrifici che l'esperanto richiede sono così piccoli e i risultati così grandi che non ci si può trattenere dal fare questa prova” scrisse Lev Tolstoj. Una lingua che si impara in due settimane, con tutti i sostantivi in -o, tutti gli aggettivi in -a, tutti gli avverbi in -e. Ad ogni lettera un suono, prefissi e suffissi che la rendono ricchissima, capace di esprimere ogni sorta di sfumatura. Basta sfogliare una traduzione in esperanto della Divina Commedia, o dell'Odissea per capirlo o almeno appercepirlo, se ancora non si sono spese quelle due settimane. Eppure. nonostante Pio X pensasse che avesse “davanti a sé un grande avvenire” e Louis Lumière fosse “convinto che il generalizzarsi del [suo] uso potrebbe avere le più felici conseguenze per i rapporti internazionali e per la realizzazione della pace universale”, l'esperanto non ha mai avuto il delirio di proporsi a lingua universale, semmai di offrirsi come lingua ausiliaria per la comunicazione internazionale, e in parte c'è riuscito. Due esempi, tra i tanti: l'Accademia Internazionale delle Scienze di San Marino lo contempla tra le lingue d'uso ufficiale con il francese, l'inglese, il tedesco e l'italiano; su Yahoo decine di babilejo (chat, da babili = chiacchierare) sui più svariati argomenti, dalla fisica quantistica al sesso anale. Si legge nel Manifesto di Praga (81° Congresso dell'Universalia Esperanto Asocio, 1996): “L'esperanto funziona già da oltre un secolo per unire gli uomini al di là delle barriere linguistiche e culturali, mentre gli obiettivi di coloro che lo usano non hanno perduto nulla della loro importanza e della loro attualità. […] Sebbene, come ogni altra lingua, l'esperanto non sia perfetto, esso supera di gran lunga ogni rivale nel campo della comunicazione a livello mondiale”. Ma l'elogio migliore ne è forse stato fatto nei primi anni '60, e in un contesto imprevedibile quanto curioso. Da un articolo del Guardian: “Al culmine della Guerra Fredda […] l’esercito americano, occupato a inventare degli scenari sempre più realistici per le esercitazioni, decise di creare una nazione fittizia che servisse da avversario negli esercizi di intelligence. Queste ‘forze di aggressione’ […] vennero dotate di uniformi verdi fornite di insegne che ricordavano quelle sovietiche. Come parte di questa identità fittizia, a esse venne dato un linguaggio. Fu così che, nel 1962, apparve un manuale di esercitazione bizzarramente intitolato 'Esperanto, il linguaggio dell’aggressore'. Quello che si dice sull’esperanto in questo manuale militare americano non può che far piacere ai sostenitori di questa lingua. Scelsero l’esperanto perché 'non identificabile con alcuna alleanza o ideologia' e perché 'assai più facile da imparare e usare di qualunque linguaggio nazionale'.” Tra pochi mesi ricorrerà il centenario del primo Convegno Internazionale di Lingua Esperanto (Boulogne, 1905) e centinaia di pubblicazioni rilanceranno la sfida. “La chiave di una lingua comune, perdutasi nella Torre di Babele, può essere rifatta solo con l'uso dell'esperanto” scrisse Jules Verne, ma non è certo questo che vorrebbero gli esperantisti, oggi. Ancora dal Manifesto di Praga: “Ogni lingua dà a coloro che la usano la libertà di comunicare fra di loro, ma nel contempo costituisce una barriera alla comunicazione con coloro che usano altre lingue. Progettato come strumento di comunicazione universalmente accessibile, l'esperanto è uno dei grandi progetti per l'emancipazione umana che funzionano, è un progetto per consentire a ciascun essere umano di partecipare come individuo alla comunità umana, mantenendo salde radici nella propria identità locale culturale e linguistica, ma senza restare limitato ad essa”. Semplificherebbe la vita a quanti, nella globalizzazione, temono la più subdola delle colonizzazioni: quella linguistica, dell’inglese. Con tutta la diffidenza di chi è perdutamente innamorato dell'italiano e preferirebbe morire piuttosto che rinunciarci, vogliamo dare un'occhiatina a questa strana lingua che non è nata nelle strade e nei mercati, nelle cattedrali e nelle università, ma sulla scrivania di un polacco?
[Si ringrazia Alberto Licheri per la preziosa collaborazione.]
http://malvino.ilcannocchiale.it/?id_blogdoc=296805
Questo messaggio è stato modificato da: oltremare, 15 Dic 2005 – 20:35 [addsig]