L’università ai tempi della lingua globale
di Ilaria Carra e Luca De Vito
Selezione già ai test d’ingresso, è obbligatorio in molti corsi, serve a studiare sui testi originali. Così “speak english” diventa un imperativo per tutti. In Bicocca seguiamo le raccomandazioni dell’Europa, contro l’appiattimento su un idioma dominante. Ormai metà dei nostri insegnamenti è svolto nel linguaggio usato dalla comunità internazionale
È talmente importante che senza saperlo in molti casi non si comincia neppure, perché le università milanesi l’hanno inserito nei principali test d’ingresso. L’inglese, oltre a essere diventata la lingua ufficiale in un numero sempre maggiore di corsi di laurea, è ormai una competenza necessaria per l’ammissione. Alla Bocconi, internazionale per scelta e vocazione, il 30 per cento degli ammessi deve dimostrare di cavarsela dignitosamente anche con le domande in lingua. Al Politecnico la logica è simile, anche se il candidato viene ammesso anche se mostra qualche lacuna nella lingua straniera, ma a patto di recuperarla nei mesi a seguire.
Alla globalizzazione che chiama, le università milanesi reagiscono ampliando la propria offerta formativa sull’insegnamento dell’inglese. Obbligo di conoscenza delle regole base, supporti per l’apprendimento – come software e audiovisivi didattici – e corsi interamente in lingua, sono interventi che si sono resi necessari da quando, con l’introduzione del 3 più 2, il ministero dell’Istruzione ha richiesto agli atenei di esigere un livello più alto di padronanza dell’inglese (riassunto nella sigla B2, ovvero medio-alto).
Ma fino a che punto l’obbligo di esibire un certificato corrisponde a un effettivo miglioramento della conoscenza linguistica dell’universitario medio? Ovvero, quanto inglese sanno davvero gli studenti? «La media ora si attesta su un gradino inferiore a quello richiesto dal ministero, il B2 – spiega Annalisa Cucco, direttrice didattica del British Institute che ha spesso a che fare con studenti in cerca di certificazioni – ma la tendenza generale è comunque al miglioramento». La colpa del livello di conoscenza modesto, nell’opinione di molti, e degli anni precedenti all’università. «La scuola media superiore in genere non prepara a sufficienza – osserva Giovanni Iamartino, direttore del dipartimento Scienze del linguaggio e letterature straniere comparate nonché docente ordinario di lingua inglese alla Statale -. Così tra il 10 e il 20 per cento degli studenti non supera la prova di accertamento al primo colpo». Perché oggi negli atenei di Milano, l’inglese, anche quando non è un insegnamento obbligatorio inserito nel piano di studi (per esempio nelle facoltà umanistiche in generale, a Veterinaria, Farmacia, Medicina e Chirurgia) viene comunque accertato con un test che verifichi le conoscenze base: accade a Matematica, Giurisprudenza e Agraria. Una prova che può essere sostituita dalla presentazione di certificati internazionalmente riconosciuti, i più noti dei quali sono Toefl (americano) e Cambridge (britannico).
Per migliorare il livello di conoscenza dell’inglese, gli addetti ai lavori suggeriscono tuttavia che esami, test, certificati, non bastano. «Sarebbe preferibile – continua Iamartino – privilegiare l’apprendimento, la capacità di lettura e la ricezione rispetto alla produzione scritta in lingua straniera in un esame di controllo». Qualcuno, in realtà, questa contromossa l’ha già fatta, come la Bocconi. «Da dieci anni abbiamo interi programmi formativi internazionali – dice Andrea Sironi, prorettore all’internazionalizzazione alla Bocconi – , circa metà dei nostri corsi ormai sono in lingua. E non per eccesso di esterofilia: è la competizione internazionale che ha queste regole».
(09 ottobre 2008)
Repubblica Milano.it
http://milano.repubblica.it/dettaglio/Passaporto-inglese/1525096?ref=rephp
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