A leggere Scrivere tra le lingue, bella raccolta di saggi di Steven G. Kellmann, il primo pensiero che ho avuto è stato: cosa accadrebbe se davvero parlassimo tutti la stessa lingua? Potrebbe questa essere una via, insieme all'abolizione del “capitale”, che possa condurci alla pace mondiale, o solo un sentiero che si presenta luminoso ma che rivelerebbe un vicolo cieco evolutivo, in cui, assieme alle differenze linguistiche, scomparirebbero anche quelle culturali, ideologiche, il confronto, la crescita…la vita?
Il panlinguismo – oltre che pratica inattuabile come ha dimostrato l'insuccesso delle lingue artificiali, tra tutte l'esperanto – è davvero la giusta soluzione?
Kellmann articola questa sua riflessione di fondo usando le voci e gli scritti di una manciata di autori, letterati che hanno sfidato la dispersione di Babele adottando una lingua diversa da quella madre (translingui), o scrivendo in più lingue mantenendo un altro grado di dignità letteraria (ambigui).
Ad un'ampia introduzione che analizza i perché di questa diaspora di scrittori (povertà, guerre, fughe strategiche), seguono capitoli monografici che ci presentano i più grandi “translingui” del novecento. C'è spazio per Joseph Conrad (polacco che scrive in inglese), per Samuel Beckett, che, irlandese di nascita, sceglie di abbandonare l'inglese a favore della rigorosità del francese e per il genio di Vladimir Nabokov che passa dal russo all'inglese senza cali qualitativi e che anzi si auto-traduce riscrivendo i suoi romanzi ed inventando lingue inesistenti alla maniera di J.R.R. Tolkien, anche se per fini totalmente differenti.
Il confronto tra due scrittrici nate a mezzo secolo di distanza, Mary Antin, polacca di Cracovia che migra negli Stati Uniti all'inizio del secolo scorso ed Eva Hoffman, conterranea della Antin, fuggita al trauma nazista per raggiungere anche lei la ben più liberale America, mette in scena entrambe le facce dell'abbandono della propria madre lingua: se per la Antin si tratta di un felice matrimonio con l'anglofonia, la Hoffman non riesce mai ad abbandonarsi del tutto ad una nuova immagine di sé, rimanendo nel lato oscuro del translinguismo, dove essere tra le lingue non è beneficiare del meglio di due mondi ma non sentirsi parte né dell'uno né dell'altro, in un limbo di specchi deformanti.
Apprendiamo poi, continuando nella lettura, dei personaggi eternamente in ritardo di Louis Begley, uomini e bambini che imparano nuove lingue per la propria sopravvivenza, e dell'esperienza del cineasta Jhon Sayles che, bianco e anglofono, racconta con i suoi film una realtà che gli è diametralmente opposta, ma non così distante.
Da sottolineare l'attenzione che viene messa nel delineare la realtà culturale di un paese che per molte delle menti “occidentali” è solo capanne e strani riti: l'Africa. Leggendo l'Africa translingue di Kellmann si scopre un mondo di scrittori per cui la scelta linguistica non è solo una questione estetica, necessaria o operata per diletto. Chinua Achebe, Salman Rushdie, Ngugi wa Thiong'o, Franz Fanon, Fernando Pessoa (questi ultimi due, uno francese-martinicano l'altro portoghese, si interessano alle dinamiche messe in atto dal colonialismo e dal conseguente razzismo) ci insegnano che scrivere in una lingua diversa e per certi versi più accessibile alla moltitudine dei lettori può non essere una scelta innocente, ma una decisione di campo, politica e polemica. Significativo il passo che sottolinea come “In Africa il translinguismo non è tanto una questione di scelta tra pianoforte, violino e clarinetto, quanto di optare tra la tromba e il kakaki” (lunga tromba metallica dal suono suggestivo ma poco deciso).
Checché se ne dica – ci sono teorie che relegano lo scrivere tra le lingue a puro divertissment piuttosto che a vero strumento di emancipazione culturale – io non riesco a vedere il translinguismo come qualcosa di negativo, innaturale o, peggio, sintomatico di un tradimento.
Se immaginate ogni universo linguistico come uno strato trasparente in cui le forme hanno tutte un ugual colore, ed la Terra, quindi, come una serie di strati sovrapposti, non si può fare a meno di pensare che lo scrittore translingue, che a differenza degli altri vede due, tre o più colori, avrà la possibilità di concepire un disegno più complesso e caotico, forse, ma decisamente più colorato.
Ora sta tutto nel mettere sui piatti della bilancia da una parte la bellezza della varietà e dall'altra il dolore che troppo spesso hanno provocato le differenze.
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Il panlinguismo – oltre che pratica inattuabile come ha dimostrato l'insuccesso delle lingue artificiali, tra tutte l'esperanto – è davvero la giusta soluzione?
Kellmann articola questa sua riflessione di fondo usando le voci e gli scritti di una manciata di autori, letterati che hanno sfidato la dispersione di Babele adottando una lingua diversa da quella madre (translingui), o scrivendo in più lingue mantenendo un altro grado di dignità letteraria (ambigui).
Ad un'ampia introduzione che analizza i perché di questa diaspora di scrittori (povertà, guerre, fughe strategiche), seguono capitoli monografici che ci presentano i più grandi “translingui” del novecento. C'è spazio per Joseph Conrad (polacco che scrive in inglese), per Samuel Beckett, che, irlandese di nascita, sceglie di abbandonare l'inglese a favore della rigorosità del francese e per il genio di Vladimir Nabokov che passa dal russo all'inglese senza cali qualitativi e che anzi si auto-traduce riscrivendo i suoi romanzi ed inventando lingue inesistenti alla maniera di J.R.R. Tolkien, anche se per fini totalmente differenti.
Il confronto tra due scrittrici nate a mezzo secolo di distanza, Mary Antin, polacca di Cracovia che migra negli Stati Uniti all'inizio del secolo scorso ed Eva Hoffman, conterranea della Antin, fuggita al trauma nazista per raggiungere anche lei la ben più liberale America, mette in scena entrambe le facce dell'abbandono della propria madre lingua: se per la Antin si tratta di un felice matrimonio con l'anglofonia, la Hoffman non riesce mai ad abbandonarsi del tutto ad una nuova immagine di sé, rimanendo nel lato oscuro del translinguismo, dove essere tra le lingue non è beneficiare del meglio di due mondi ma non sentirsi parte né dell'uno né dell'altro, in un limbo di specchi deformanti.
Apprendiamo poi, continuando nella lettura, dei personaggi eternamente in ritardo di Louis Begley, uomini e bambini che imparano nuove lingue per la propria sopravvivenza, e dell'esperienza del cineasta Jhon Sayles che, bianco e anglofono, racconta con i suoi film una realtà che gli è diametralmente opposta, ma non così distante.
Da sottolineare l'attenzione che viene messa nel delineare la realtà culturale di un paese che per molte delle menti “occidentali” è solo capanne e strani riti: l'Africa. Leggendo l'Africa translingue di Kellmann si scopre un mondo di scrittori per cui la scelta linguistica non è solo una questione estetica, necessaria o operata per diletto. Chinua Achebe, Salman Rushdie, Ngugi wa Thiong'o, Franz Fanon, Fernando Pessoa (questi ultimi due, uno francese-martinicano l'altro portoghese, si interessano alle dinamiche messe in atto dal colonialismo e dal conseguente razzismo) ci insegnano che scrivere in una lingua diversa e per certi versi più accessibile alla moltitudine dei lettori può non essere una scelta innocente, ma una decisione di campo, politica e polemica. Significativo il passo che sottolinea come “In Africa il translinguismo non è tanto una questione di scelta tra pianoforte, violino e clarinetto, quanto di optare tra la tromba e il kakaki” (lunga tromba metallica dal suono suggestivo ma poco deciso).
Checché se ne dica – ci sono teorie che relegano lo scrivere tra le lingue a puro divertissment piuttosto che a vero strumento di emancipazione culturale – io non riesco a vedere il translinguismo come qualcosa di negativo, innaturale o, peggio, sintomatico di un tradimento.
Se immaginate ogni universo linguistico come uno strato trasparente in cui le forme hanno tutte un ugual colore, ed la Terra, quindi, come una serie di strati sovrapposti, non si può fare a meno di pensare che lo scrittore translingue, che a differenza degli altri vede due, tre o più colori, avrà la possibilità di concepire un disegno più complesso e caotico, forse, ma decisamente più colorato.
Ora sta tutto nel mettere sui piatti della bilancia da una parte la bellezza della varietà e dall'altra il dolore che troppo spesso hanno provocato le differenze.