SALVARE L’EUROPA DAGLI EUROPEISTI

Situato nei pressi dell'aeroporto di Nizza, nel sud della Francia, Sophia Antipolis è un parco industriale con molti laboratori di ricerca, sia da organizzazioni di ricerca pubbliche che da industrie ad alta tecnologia.

Ma non saranno imprese e concentrazioni che una nuova forma di statalismo vorrebbe creare a tavolino, esentandole dalle regole della concorrenza. Il modello Silicon Valley

Si può rispondere alla minaccia populista con una nuova forma di statalismo europeo? Serve un modello politico più aperto alla concorrenza e meno ostaggio dei vecchi metodi di politica industriale. Perché la sfida con Stati Uniti e Cina si può vincere solo con un nuovo neo liberismo

E’ la fine della politica europea della concorrenza per come la conosciamo? La commissaria europea per la Concorrenza, Margrethe Vestager, da tempo sotto assedio, ha aperto nei giorni scorsi alla revisione delle regole che hanno promosso l’integrazione dei mercati europei. E’ l’ultimo atto, in ordine di tempo, di un crescendo di dichiarazioni e prese di posizione al riguardo da parte di governi – in particolare quelli francese e tedesco –, ceo di grandi multinazionali, confederazioni d’impresa ed esponenti politici. Dietro il braccio di ferro sulla competition policy c’è però un sommovimento più ampio e profondo. L’avanzare dei populismi (passati dal 10 al 22 per cento nell’arco di un ventennio, secondo il Populism Index elaborato dal think tank svedese Timbro) ha condizionato il dibattito pressoché ovunque. L’elemento comune delle forze che vi si richiamano (sia di destra sia di sinistra) è, infatti, una politica economica fortemente nazionalista che può declinarsi – a seconda del particolare contesto politico, sociale ed economico – in statalismo, protezionismo, sovranismo, unilateralismo, dirigismo, ecc. E ora, la domanda di queste politiche, come un virus, va estendendosi, vuoi per contagio vuoi per reazione, dagli stati membri alle stesse istituzioni europee.

Sembrerebbe, a prima vista, un paradosso: le fondamenta dell’Ue sono state gettate all’indomani della Seconda guerra mondiale proprio per sterilizzare quelle pulsioni che avevano condotto il vecchio continente nell’abisso. Eppure i sintomi della malattia ci sono tutti: un lessico politico che sempre più spesso richiama la sovranità (tecnologica, militare, economica), ostentate ambizioni geopolitiche, un frequente ricorso alla retorica dei campioni “europei”, l’appello a preminenti esigenze di politica industriale (a scapito dei consolidati principi di politica della concorrenza), ecc. Per la verità, questa tendenza era già in atto da qualche tempo, ma con l’insediamento della nuova Commissione, guidata da Ursula von der Leyen, il processo ha avuto un’accelerazione.

E’ inutile negarlo: oggi i politici europei si sentono frustrati. La competizione per la leadership – tecnologica, prima ancora che economica – tra Cina e Stati Uniti vede l’Europa ai margini. Più un terreno di scontro che un player. A ciò si aggiunga il malessere per un atteggiamento sempre più antagonistico dell’Amministrazione Trump nei confronti dei paesi europei. Basti ricordare le critiche per i limiti alla spesa militare nell’ambito della Nato, l’insofferenza per l’asserita eccessiva condiscendenza sul piano economico alla Cina, i dazi applicati nelle recenti controversie e soprattutto quelli minacciati nel settore automobilistico, le accuse di manipolazione della valuta per la politica monetaria espansiva della Banca centrale europea, l’applicazione extra-territoriale delle sanzioni. Di qui il tentativo di ottenere un diverso posizionamento per l’Ue sul piano economico e geopolitico. Ciò vuol dire far sì che l’Unione – superando la frammentazione che ne ha finora diminuito l’influenza – contribuisca attivamente alla ridefinizione delle regole del gioco dell’economia mondiale (non limitandosi più a esprimere, da buona comprimaria, una posizione sui grandi temi di politica economica). Nella recente intervista all’Economist, il Presidente francese, Emmanuel Macron, ha ribadito con forza l’esigenza di una sovranità europea per perseguire in modo strategico gli interessi comuni (sicurezza, privacy, intelligenza artificiale, dati, ambiente industria, commercio internazionale). Echi di questa visione si hanno anche nel programma della presidente von der Leyen, là dove si rivendica la sovranità tecnologica (nel discorso alla seduta plenaria del Parlamento europeo, ha declinato il concetto affermando che l’Europa deve controllare e possedere le tecnologie abilitanti fondamentali). E’ dunque anche alla luce di queste dichiarazioni che va interpretato il nonpaper franco-tedesco con il quale è stato lanciato il progetto di indire una Conferenza sul futuro dell’Europa per riformare i Trattati.
L’idea di una sovranità economica europea, peraltro, è già stata oggetto di ampio dibattito sul piano intellettuale. Un paper pubblicato dall’European Council on Foreign Relations dal significativo titolo Redefining Europe’s economic sovereignity ha chiarito i termini della questione, delineando un’agenda europea per perseguire questa strategia. A prima vista, sono tutte proposte condivisibili: rafforzare ricerca e sviluppo, proteggere beni strategici e infrastrutture critiche, contrastare comportamenti sleali di altri paesi e assicurare la propria autonomia monetaria e finanziaria. Ma, guardandole in controluce, si vede in filigrana un disegno che rischia di entrare in contraddizione col senso stesso dell’architettura europea.

Una politica estera economica per l’Ue

Molte delle misure contemplate hanno a che fare con il ruolo dell’Europa nel sistema delle relazioni finanziarie internazionali. Si vorrebbe accrescere il ruolo dell’euro come moneta di riferimento nelle transazioni finanziarie internazionali, trasformare il Mes in un Fondo monetario europeo per finanziare anche paesi terzi (accrescendo così la sfera d’influenza economica dell’Ue), istituire un’unica e importante banca di sviluppo (il che ha scatenato un’accesa contesa tra coloro che vorrebbero attribuire questo ruolo alla Bei e i sostenitori della Bers).
A tutto ciò dovrebbe accompagnarsi un ribilanciamento del peso dei singoli stati nelle organizzazioni internazionali a favore dell’Unione.
Per poter perseguire un’efficace politica estera economica si parla poi di dotare l’Ue di tutto l’armamentario necessario a prendere posizione sulla scena internazionale (non solo dazi doganali, ma anche misure ritorsive contro le sanzioni, l’imposizione fiscale, ecc.) consentendole di avvalersi al contempo della leva tariffaria, di quella valutaria e di quella fiscale. E naturalmente, si vorrebbe che gli investimenti extra-europei fossero assoggettati a controllo unico da parte del Consiglio per avvalersi anche di quest’arma per bloccare le operazioni da paesi considerati concorrenti sistemici.
Tutto molto bello, a parole, ma possiamo veramente contare di trasformare così l’Ue senza che vi sia una politica estera comune? Le opinioni espresse nelle organizzazioni economiche internazionali, l’adozione di strumenti di coercizione economica, le decisioni di politica commerciale e finanziaria in funzione politica sono imprescindibili dalle grandi scelte di politica estera e dal posizionamento dello stato sullo scenario internazionale. E oggi, non può certo parlarsi di una effettiva politica estera comune. Perfino su tematiche apparentemente innocue, come l’allargamento alla Macedonia del Nord e Albania, si è creata un’acrimoniosa conflittualità interna. Figuriamoci quando si deve decidere il da farsi in questioni più significative come i rapporti con Russia e Cina. Rischiamo di fare un salto in avanti senza rete di protezione, come accadde per l’Unione monetaria: la politica monetaria fu comunitarizzata senza avere conseguito una più stretta convergenza delle politiche economiche. C’è voluta la più grande crisi economica dalla fine della Seconda guerra mondiale per spingere gli stati membri a fare dei passi avanti – e il lavoro è ancora lungi dall’essere completato.
Anziché perseguire sogni di una improbabile e difficilmente realizzabile grandeur europea, molto nelle corde del presidente francese e dei suoi emuli (o rivali) negli altri stati membri, meglio concentrarci sul here and now, con un più sano pragmatismo. Il vero problema oggi non è tanto il posizionamento dell’Unione nello scacchiere mondiale, quanto la sua paralisi, per effetto di veti incrociati, o la realizzazione di politiche timide e spesso inefficaci, per mediare tra posizioni troppo diverse e spesso confliggenti. Primum crescere deinde philosophare. E la crescita non si ottiene a tavolino. Così come non si costruiscono in laboratorio i campioni europei, che stanno diventando il vero terreno di scontro ideologico tra le forze in campo.
Le ricette sono da tempo note a tutti, ma purtroppo ancora di difficile attuazione. Il da farsi ce lo ricorda il Jacques Delors Institute in un paper pubblicato in ottobre, dal significativo titolo Beyond Industrial Policy. Why Europe needs a new growth strategy. Le priorità sono completare il mercato interno, rimuovere gli ostacoli (fiscalità, frammentazione della normativa giuslavoristica, difficoltà di accesso ai dati) alla crescita dimensionale delle piccole e medie imprese, creare una sorta di gold standard sul piano regolatorio per le nuove tecnologie (come si è fatto con il Gdpr per il flusso dei dati) e continuare – con chi ci sta – il processo di liberalizzazione e omogeneizzazione degli standard nei settori industrialmente più rilevanti. La realizzazione, ancora lontana da venire, dell’unione dei capitali, ampliando le fonti di finanziamento, potrà dare un importante contributo alla crescita delle imprese e specialmente delle start-up che hanno difficoltà di accesso al canale bancario. E, naturalmente, se si vuole evitare che le imprese tecnologiche fioriscano all’estero, occorre erogare finanziamenti europei alla ricerca e rimuovere gli ostacoli, di varia natura, all’innovazione e alla concorrenza nel nuovo mondo digitale. Se ciascuno stato agisce per sé, continueremo a creare tanti piccoli nani.

Campioni europei: la rivincita della politica industriale?

Fin qui si tratta per lo più di nice to have: ambiziosi progetti di lungo termine che distraggono dalle riforme più impellenti per far uscire l’Europa dalle secche nelle quali si trova. C’è però un tema più attuale e pericoloso, soprattutto perché ha ripercussioni immediate. Alcuni stati, infatti, hanno iniziato a rivendicare mano libera per creare dei campioni europei in grado di competere efficacemente con i giganti americani e quelli cinesi. E, per farlo, sono pronti a vendere l’anima al diavolo ovvero a rinnegare i principi fondanti dell’Unione. La tesi di fondo è che la competition policy europea, avendo come obiettivo la tutela del consumatore e la promozione della concorrenza, non sarebbe in grado di rispondere ad altre finalità di interesse più generale, come appunto quella di favorire la nascita di grandi imprese europee in grado di conquistare i mercati mondiali. Ma siamo proprio sicuri che i campioni europei si possano creare solo in vitro, esentandoli cioè dalle regole della concorrenza?
L’episodio scatenante è stato il merger mancato tra Siemens e Alstom. La commissaria Vestager, infatti, per dare il via libera alla concentrazione aveva richiesto delle misure compensative (la cessione di alcuni asset) che le due società interessate non hanno, però, voluto accettare. Scottati dalla decisione, i governi francese e tedesco hanno accusato la Commissione di essersi basata esclusivamente su considerazioni di natura concorrenziale, trascurando altri aspetti che, a loro avviso (ma non secondo il Regolamento sulle concentrazioni), avrebbero pari dignità o addirittura superiore. E nel dicembre 2018, diciannove stati (tra cui Italia, Francia e Germania) hanno scritto alla Commissione chiedendo una politica industriale più “assertiva”. Il che – per dirla in termini più chiari – significava modificare la politica della concorrenza per dare maggior peso a considerazioni di politica industriale e del contesto competitivo internazionale. Cioè, in sintesi, subordinare la valutazione tecnico-economica della Commissione alle ambizioni politico-industriali degli stati membri. Nei giorni scorsi, poi, i ceo di 21 tra le principali imprese di telecomunicazioni europee hanno scritto una lettera chiedendo “una politica industriale per la leadership digitale”, volta cioè a difendere un settore sempre più in difficoltà nella competizione globale con i grandi player americani. Infine, anche il nostro presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, intervenendo lunedì scorso al Rome Investment Forum, ha invocato una riforma della competition policy europea che oggi è, a suo avviso, suscettibile di “frenare i nostri campioni europei”.
La Francia (ma non solo) ha sempre sopportato con una certa insofferenza il ruolo così importante della Commissione. Insofferenza che è andata crescendo man mano che il lavoro di integrazione dei mercati si è fatto più capillare, frustrando la maggior parte dei tentativi di eludere le regole. Tant’è che Nicolas Sarkozy, tra le condizioni per approvare il Trattato di Lisbona, ottenne di eliminare il riferimento alla politica di concorrenza tra gli obiettivi dell’Unione. Una concessione per lo più simbolica, ma rivelatrice. Oggigiorno, con l’avanzata intellettuale del nazionalismo economico, la situazione è divenuta esplosiva.

Il vero problema oggi non è tanto il posizionamento dell’Unione nello scacchiere mondiale, quanto la sua paralisi, per effetto di veti incrociati, o la realizzazione di politiche timide e spesso inefficaci, per mediare tra posizioni troppo diverse e spesso confliggenti.

La Francia (ma non solo) ha sempre sopportato con una certa insofferenza il ruolo così importante della Commissione. Non c’è alcuna evidenza che il ritorno dello stato innovatore (o imprenditore) avrebbe effetti discernibili e positivi sulla crescita e il benessere. Anzi, è vero il contrario

Non c’è alcuna evidenza che il ritorno dello stato innovatore (o imprenditore) avrebbe effetti discernibili e positivi sulla crescita e il benessere. Anzi, è vero il contrario. Non è che manchino esempi di investimenti pubblici, imprese statali o altre forme di eterodirezione dell’economia nei quali l’esito sia stato positivo: è che si tratta delle eccezioni a una regola che, in generale, lascia poco scampo. Alla base di tutto c’è un problema di informazione. Il processo competitivo è simile alla selezione darwiniana, e tende a premiare quelle imprese che – in un dato contesto di tempo e di luogo – sanno meglio adattarsi alle condizioni ambientali. Le scelte top down raramente riescono a incorporare, con altrettanta efficacia e rapidità, i cambiamenti nelle preferenze dei consumatori, nella tecnologia, nei processi produttivi e nelle condizioni esogene del mercato.

Non è un caso se i tentativi di replicare a tavolino i casi di successo sono generalmente risultati fallimentari. L’esperimento più clamoroso, in Europa, è quello di Sophia Antipolis, il parco tecnologico situato tra Nizza e Cannes che, nelle intenzioni del suo fondatore (lo scienziato e senatore Pierre Laffitte) e dei vari sponsor governativi, avrebbe dovuto rivaleggiare con la Silicon Valley. Il Corriere della Sera ne celebrava così il cinquantennale: “Sophia Antipolis, la Silicon Valley francese compie 50 anni. Ma il sogno del suo fondatore dev’essere ancora realizzato”.

Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro | Il Foglio Quotidiano | 16.12.2019

Alberto Serravalle è professore di diritto dell’Unione europea nell’università di Padova. Carlo Stagnaro è direttore dell’Osservatorio sull’economia digitale dell’Istituto Bruno Leoni. Insieme hanno scritto un libro sul ritorno del nazionalismo economico in uscita nei prossimi mesi

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