Quando i bambini Inuit furono strappati alle famiglie

Il Caso

Un libro riscopre le storie degli eschimesi «deportati» in Danimarca negli anni 40-60 «per imparare lingue e costumi della madrepatria»

I piccoli Inuit «rubati» vogliono le scuse dei danesi

I bimbi furono strappati alle famiglie in Groenlandia

di Luigi Offeddu

Nella città di Nuuk, che con i suoi 18 mila abitanti è una delle più piccole capitali al mondo e certo la più settentrionale, il medico-capo del distretto sanitario ha trovato una sua ricetta contro il diffondersi delle malattie sessuali, Aids compreso: raccomanda a baristi e commercianti di attaccare un preservativo a ogni bottiglia di vodka o di birra, «così molta gente che si ubriaca e poi ha rapporti a rischio si ricorderà dei pericolo e avrà sotto mano una protezione sicura».

I cittadini da «proteggere» sono eschimesi Inuit, Nuuk è la capitale della loro Groenlandia, la terra che popolano da 4.500 anni, appena proclamata indipendente dalla corona danese. E l’idea del medico è un esempio delle molte sfide che il presente ha portato lassù, con una modernizzazione che semina fra gli Inuit – insieme al benessere e a Internet – anche alcolismo, depressioni, suicidi. Ma il presente fa ancora meno male del passato, di quello drammatico (per loro) o edificante (per altri) tornato a galla nelle ultime settimane sotto la frase «Con le migliori intenzioni»: così si intitola un libro, scritto dalla giornalista danese Tina Bryld, che documenta le storie di 1.6oo bambini Inuit portati dalla colonia groenlandese in Danimarca negli anni 40-60, ufficialmente «a imparare il danese». Se si sostituisce la parola «de-portati» alla parola «portati», come è stato gridato nelle sale delle scuole di Nuuk dove in questi giorni si e discusso del libro alla presenza dell’autrice, si può capire la tempesta delle emozioni: gli orfani di una Thule dimenticata, a torto o a ragione così li si riscopre adesso. Perché almeno 100 di quei bambini furono dati per sempre in adozione a coppie danesi, con la giustificazione che le loro case (o i loro igloo: di questo allora si parlava) erano «sovraffollate», malsane: e se qualche volta i genitori naturali si opposero, probabilmente non furono ascoltati. Mentre altre decine e centinaia di ragazzi tornarono, ma tormentati da disturbi psichiatrici e comportamentali: trasportati dai ghiacci eterni popolati di orsi alle villette di Copenaghen e ai laghetti punteggiati dalle oche, avevano perduto le loro radici. Altri si erano ritrovati senza più un parente o un amico, nella colonia natia come nella «madrepatria»: ed erano finiti in un orfanotrofio della Croce Rossa.

Storie per decenni dimenticate, o negate. Durante le serate di presentazione del libro, ora, qualcuno di quei bambini diventati vecchi si è alzato, ha ritrovato i suoi ricordi, ha raccontato la propria vicenda o quella di uno zio conosciuto solo da grande, ha preannunciato la richiesta di un risarcimento allo Stato danese. E, soprattutto, ha chiesto: «Perché voi danesi non ci avete mai detto nulla?». La risposta, forse, sta proprio nel titolo del libro: «Con le migliori intenzioni». Era così che tutto veniva fatto, si pensava che imparando la lingua e la cultura della «madrepatria» i piccoli Inuit avrebbero potuto avere una vita migliore. Ben inteso: si pensava così da parte dei danesi; di che cosa pensassero gli altri, poco o nulla si sa.

E del resto, come ha scritto il più noto studioso degli Inuit, Robert Petersen dell’Università di Nuuk, «non c’è alcuna storia di violenta oppressione coloniale in Groenlandia: si diceva che ogni danese, qui, era venuto per aiutare i groenlandesi, secondo una vecchia idea doveva svolgere quei compiti che i groenlandesi non erano in grado di svolgere da soli». Con le migliori intenzioni, appunto, ma forse ai bambini di allora nessuno l’aveva spiegato.

(Dal Corriere della Sera, 23/9/2009).

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