Quando D’Annunzio sciacquò i panni in Arno

Quando D’Annunzio sciacquò i panni in Arno.

L’apprendistato letterario in un quaderno ritrovato.

di Anna Mangiarotti.

Un quadernetto a righe, rilegato con lo spago, protetto da una copertina in cartoncino e rinforzato sulla costa da una striscia nera di carta cerata. Scrittura rotondetta e sottile in inchiostro, tra il turchino e il violaceo. Titolo: “In Toscana Appunti”. Una raccolta di frasari su vari argomenti, come Rumore, Voce, Luce e Tenebre, Fatica e Studio, Amore e Odio, Gioia e Dolore, Indifferenza e Disprezzo, Ira e Dispetto, oltre alla maniera di mangiare e bere, “a sciacquabudella” per esempio.
“Comunissimi” sono presentati alcuni modi proverbiali: “Era una bella ragazza, con certi fianchi e corte coscie (sic) sode e color di rosa ch’era un piacere a vederle: e aveva due poppe che dicevano proprio: baciami! baciami!… ma mi toccò “fare come i buoi di Fiesole che si leccano i mocci vedendo l’acqua d’Arno” (cioè mi toccò a vedere, senza poter soddisfare la mia voglia)”. Il diligente autore che sottolinea massime e aforismi nella compilazione è rilevato sulla parte interna della copertina: “Questo quaderno, scritto di mano da Gabriele D’Annunzio quand’era studente di Liceo nel Collegio Cicognini di Prato, l’ho avuto in dote da Amerigo Antoniuzzi compagno, in quel tempo, del D’Annunzio, e della sua stessa camerata. Lo regalo all’Amico Men Mosca per mio ricordo. Staffetti, Firenze 10 del 1890”. Da Luigi Staffetti, dunque, a Domenico Mosca, amico fraterno pure di Giovanni Pascoli.
E Men nell’aprile 1919 scrive sotto l’avvertenza di Staffetti: “E io lo dono alla Biblioteca di Coira (Grigioni). D.Mosca”. Confermando l’autenticità del taccuino, ancora custodito in Svizzera, gli appunti sono ora accessibili a tutti nell’edizione Otto/Novecento, a cura di Ermanno Paccagnini. Il quale indaga l’apprendimento, letterario e parlato quotidiano, del sedicenne novizio Gabriele, liceale a Prato, fra il 1876 e 1881. Allora, in Arno, a differenza dei buoi, può risciacquare i panni, ovvero la sua barbara lingua d’Abruzzo, e incorruttibilmente toscanizzarla. Imparando quell’elegantissima maniera di beffare il prossimo e se stessi, che si chiama “prosare”. E che prevede coglionerie e più modeste corbellerie, o spropositi “grossi e tondi come la cupola di San Pietro o il cupolone di Firenze”. Incomparabile, la ricchezza di tale vocabolario. “Dio bonino!” o “Dio de’Dei!” annota il curioso collegiale, spesso rimproverato per il suo ricorrere a testi considerati dai superiori non proprio idonei alla sua educazione. Ma a lui piace “andar per Firenze”, oltre per le pagine di Collodi e di De Amicis, ad accumulare espressioni di cui il suo personale estro compositivo saprà far tesoro. Imparando a disegnare ritratti, specie femminili, di diversa qualità: “La Rosaura è una zitella spersonita, ristecchita, vizza, passa, rinfisecchita, con un viso rinfrignato, cogli occhi cerpellini…”.
Per riconoscere un uomo da cui stare alla larga, avvisa che “odoro di birba da lontano un miglio”. Mentre sembra difficile trovare quello che, oltre a sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà, timor di Dio, “ha l’ottavo dono dello Spirito Santo”, non specificato. Insomma, davvero rara, in ogni epoca, la specie del galantuomo, anzi “galantominone”.
(Da La Nazione, 7/1/2014).

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