Analisi
Perché la Groenlandia fa gola a Trump (e non solo)
Uranio e terre rare, ma anche petrolio, carbone, piombo, diamanti e gas naturale. Il riscaldamento globale sta sciogliendo il terreno ghiacciato groenlandese portando alla luce i tesori dell’isola più grande del mondo. La cui posizione geopolitica diventa centrale nelle rotte marittime artiche, destinate a moltiplicarsi restando aperte anche d’inverno
Nella Groenlandia che fa gola a Trump (ma su cui hanno messo da tempo gli occhi, a mandorla, anche i cinesi) non ci sono solo gamberetti ed eschimesi. C’è anche la gigantesca miniera di Kvanefjeld, uno dei più grandi giacimenti mondiali di uranio e terre rare: materie prime sempre più strategiche nella sfida con Pechino, che grazie al riscaldamento globale e allo scioglimento del permafrost (il terreno perennemente ghiacciato) sono destinate ad essere sfruttate con minori difficoltà.
Fino a qualche anno fa l’estrazione di materie radioattive era proibita per motivi di salvaguardia dell’ambiente, a cui la Danimarca è sicuramente molto più attenta di Trump, ma nel 2010 l’assemblea rappresentativa groenlandese ha ottenuto il diritto di decidere sulle risorse del suo sottosuolo, abolendo poi nel 2013 il divieto di estrarre sostanze radioattive.
Ma oltre all’uranio, nell’isola più grande del mondo (abitata da solo 56mila persone in maggioranza inuit) ci sono anche petrolio, carbone, piombo, diamanti e gas naturale. Senza dimenticare la crescente importanza geopolitica: con lo scioglimento delle calotte, le rotte marittime polari sono destinate a moltiplicarsi, mantenendo aperti anche d’inverno quei “passaggi a nord-ovest” che fanno così gola a Mosca (ne controlla già parecchi) e a Pechino. Non a caso il colosso danese Maersk Line, leader mondiale del trasporto marittino, l’anno scorso ha inaugurato per i suoi supercargo rotte artiche al nord della Russia in alternativa al Canale di Suez.
Per giunta il riscaldamento globale potrebbe portare alla luce anche gli enormi giacimenti di petrolio e gas dell’Oceano Artico, secondo alcuni esperti i più grandi al mondo non ancora sfruttati, intrappolati in ghiacci che fino a ieri erano eterni, ma che da domani potrebbero essere liquefatti.
Trump non è il primo a interessarsi alla Groenlandia, nemmeno storicamente: nel 1946 l’allora presidente Harry Truman offrì alla Danimarca 100 milioni di dollari per comprare l’isola – cercando di bissare l’acquisto dell’Alaska nel 1867 (allora in possesso dell’Impero russo) poi diventata Stato dell’Unione nel 1959 sotto Eisenhower – ma l’offerta venne declinata da Copenaghen.
Già durante la seconda guerra mondiale, preoccupati di un possibile blitz tedesco in grado di bloccare i rifornimenti all’Unione Sovietica, gli Stati Uniti installarono basi militari e stazioni metereologiche nell’isola. Oggi la Groenlandia rappresenta il bastione più avanzato della Nato e dei suoi sistemi di allerta antimissile, con la Thule Air Base che è l’installazione militare più settentrionale del Pentagono, circa mille chilometri a nord del circolo polare artico.
Ad accelerare gli appetiti di Trump, che secondo il Wall Street Journal sarebbe pronto a mettere sul piatto un’offerta concreta nel corso della visita di Stato di Copenaghen del 2-3 settembre, s arebbe il crescente interesse di Pechino per l’isola, come sempre molto discreta ma altrettanto determinata nel perseguire i propri interessi. Non è un mistero che la nuova “Polar Silk Road”, lanciata l’anno scorso a completamento della “Belt and Road”, punti anche all’isola più grande del mondo, che politicamente appartiene alla Danimarca ma che gode di un’enorme autonomia in particolare nello sfruttamento delle proprie risorse.
Copenaghen ogni anno sborsa 457 milioni di euro in sussidi alla Groenlandia e Trump, «con vari gradi di serietà» come riporta il Wall Street Journal, avrebbe molto piacere di sollevare il Governo danese dall’esborso per avere libertà di perforazione del sottosuolo. Del resto, non sarebbe una prima volta: nel 1917, in piena Grande Guerra, Washington riuscì ad acquistare da Copenaghen le Isole Vergini statunitensi dopo un “corteggiamento” durato mezzo secolo.
All’iperattivismo mondiale della Cina, i cui interessi economici spaziano ormai dall’Africa al Centramerica e Sudamerica, dal Medio Oriente all’Europa, Washington fa fronte con una strategia di contenimento sempre più affannata. Come dimostra per esempio il fatto che, in pochi anni, Pechino ha messo le mani sulla maggior parte delle miniere mondiali di litio, metallo strategico per le batterie della mobilità del futuro, strappandole proprio al controllo di società statunitensi.
La Groenlandia è uno dei nervi scoperti della strategia di contenimento: quando in febbraio la Cina aveva offerto a Copenaghen finanziamenti per la costruzione di nuovi aeroporti nell’isola, la Casa Bianca si era affrettata a gettare sul tavolo una controproposta, dettata dalla paura che Pechino chiedesse in un secondo momento di utilizzare gli scali anche per scopi militari. La spuntò poi un contractor danese, ma l’episodio è sintomatico del nervosismo che serpeggia nello Studio Ovale quando il mappamondo gira sulla Groenlandia.
Per ora, però, sia danesi che groenlandesi hanno educatamente risposto picche alle indirette avances. In pieno ferragosto si sono affrettati a replicare alle indiscrezioni di stampa del Wall Street Journal con un «la Groenlandia non è in vendita, siamo però aperti per affari» arrivato via social media dal ministro degli esteri dell’isola: messaggio fermo ma non ostile, onde non indisporre il vulcanico ex conduttore di reality show finito alla Casa Bianca. Ma la cosa, di sicuro, non finirà qui. Nella sfida sino-americana il fronte dell’Artico è destinato a diventare sempre più caldo. E non solo per il climate change.
Enrico Marro | ilsole24ore.com | 17.8.2019