Parole malfamate e insulti etnici

Il piccolo fratello

Parole malfamate e insulti etnici

Non è raro che un meridionale ancora oggi si senta dare del «terrone». Qualche settimana fa Vittorio Feltri ha usato questo epiteto contro Montalbano, il commissario di Camilleri, aggiungendo che «ci ha rotto i coglioni…». Si tratta di un «etnonimo», come spiega bene Enrico Testa nel recente saggio Bulgaro (II Mulino). Gli «etnonimi» sono l’insieme di nomi che indicano un popolo: a volte sono sostantivi dal valore puramente denotativo; altre volte, specie quando provengono dall’esterno, assumono connotazioni dispregiative. «Terrone» è un’indicazione etnica del secondo tipo: anche se non menziona esplicitamente il nome del popolo, si sa che allude agli italiani meridionali. Lo stesso valeva quando i francesi ci chiamavano «macaronì», idem quando noi chiamiamo i tedeschi «crucchi» (nel web l’aggettivo, di origine incerta, è tornato di moda per la capitana Carola). Lo stesso vale quando i tedeschi chiamano i francesi «Froschesser» (mangiatori di rane) e così via, ci si può sbizzarrire negli incroci. Senza dimenticare che al tempo in cui gli svizzeri promuovevano i referendum popolari per affermare «prima gli svizzeri!», gli italiani venivano chiamati «cingali» (zingari) e spesso «Africa bianca». La storia si ripete e, per rinfrescarsi le idee sulla discriminazione linguistica, sarebbe bene, appunto, leggere il saggio di Testa, che analizza e ripercorre il diffondersi di «bulgaro» come parola malfamata. Basti pensare a combinazioni lessicali come «maggioranza bulgara», «pista bulgara», «editto bulgaro» riprese in contesti diversi ma sempre in chiave squalificante. Non accade solo in italiano: anche in altre lingue esistono parolacce che si possono ricondurre al Paese balcanico. Rovistando nel web, nei giornali, nel discorso politico, in resoconti di viaggio e in documenti antichi, Testa ricostruisce la storia di uno stereotipo culturale diventato stereotipo lessicale. E mostra come la lingua non sia mai innocente e come certi usi rivelino un’avversione maturata per secoli: quella occidentale verso il popolo balcanico, per esempio, ha radici in varie sette religiose considerate «repugnanti» dalla Chiesa romana. Dunque, fenomenologia di un odio razziale attraverso gli abusi linguistici: utilissima in un momento in cui il linguaggio è fuori controllo.

Paolo Di Stefano | Corriere della Sera | 16.7.2019

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