Non è facile parlare dell’arte di Giorgio Pagano, dato che, a differenza di `tanti suoi colleghi, egli non si limita a darci dei dipinti che se ne stanno passivamente acquattati nella loro condizione di oggetti, ma li accompagna con un intenso lavorio critico e teorico; e dunque il critico teorico di professione si trova a dover fendere una nube, di “ideologemi”, come si usa dire oggi, prima di poter aggredire la “cosa stessa”, cioè l’opera dipinta dalla mano di Pagano; oppure, più utilmente, si tratta di integrare i due aspetti, di consumarli congiuntamente, di portarli a una verifica e a una conferma reciproche.
Mi provo a ridire con parole mie le idee dell’artista, sperando di introdurre un tasso minimo di deformazione. Potremmo partire dal ben noto scontro tra lo hard e il soft, tra una cultura (e una tecnologia, un’economia) improntate all’industrialismo pesante, e invece una fase successiva in cui subentrano le più agili possibilità dell’elettronica. Quando dominava lo hard, soprattutto negli anni Sessanta del boom, mi sembra voler asserire Pagano, il quadro politico planetario era dominato dallo scontro USA-URSS, cui faceva eco, in ambito artistico, un internazionalismo ugualmente pesante e omogeneo, dominato dai modelli forniti dagli USA (per le note ragioni di incredibile ritardo estetico, la Russia non ha mai potuto esercitare, sul piano del gusto, una leadership alla stregua del suo potenziale economico).
Ma poi la crisi degli idrocarburi, e più ancora l’avvento in forze della civiltà tecnotronica modifica radicalmente il quadro generale. Dal trionfo di tutto ciò che si pone a scala monumentale, macroscopica, si passa al recupero di formati più ridotti, a scala umana, un po’ all’insegna del “piccolo è bello”. Il senso della misura, nuovamente recuperato, sostituisce la precedente dismisura, riaccreditando anche i valori della diversità, della varietà, di tutto ciò che distingue e personifica. E in una simile situazione radicalmente mutata si ha il rilancio dell’Europa dai “vecchi parapetti”, per dirla con Rimbaud, così come, in parallelo, si ha il rilancio del Giappone o in genere delle culture dell’Estremo-Oriente.
Pagano infatti, si pone come un indefesso sostenitore dei valori di un’Europa ritrovata; il che però implica che non si debba eccedere, in questa corsa al recupero del piccolo, del discreto, del privato e così via. Si sa che lungo questa strada è facile trovarsi in piena difesa del “genius loci”, della resurrezione dei più disparati idioletti. Dall’internazionalismo, si cadrebbe in uno sbriciolio dialettale, folclorico, e dunque anche per questo verso si “mancherebbe” l’obiettivo di un’Europa, non dico unificata, ma almeno coerente, coesa, consapevole di sé, delle proprie forze e tradizioni. Nella costruzione ideologica che Pagano ci presenta, questo obiettivo di una “unità nella diversità”, di una specie di media risultante, in cui i diversi apporti riescano a confluire senza mortificarsi e annullarsi, trova un simbolo e uno strumento nell’adozione di una lingua comune; l’esperanto, diversa appunto dall’inglese standard, che è lo strumento di un internazionalismo alimentato dai voli in jet, così come dalla miriade di dialetti e parlate locali, in cui si cadrebbe se la pista opposta venisse seguita fino in fondo. Credo che Pagano sarebbe pronto ad ammettere una sottile omologia tra questo strumento unitario a livello linguistico, l’esperanto, e lo strumento tecnologico ed energetico su cui si fonda la nostra attuale condizione postmoderna, e che ha legittimato i vari rilanci del senso della misura e del “piccolo”, cioè l’elettronica. Egli quindi non abbraccia le tesi dei “catastrofisti”, secondo i quali i recenti aspetti di ritorno al passato; di revivalismo, citazionismo ecc. si giustificano in base a un’effettiva battuta d’arresto del “progresso”, a una tappa involutiva, a una contrazione dei consumi, seguita anche da una contrazione delle idee, delle risorse di ogni tipo e grado. Pagano continua a credere nel progresso, il che poi, a livello artistico, significa che non si torna pari pari al “quadro”, come se tutte le sperimentazioni “moderniste” e internazionaliste non fossero mai state. Egli continua a pensare che valga la pena di variare, per esempio, il formato dei dipinti, e di attuare una collaborazione tra gli utensili classici e quelli nuovi rientranti nel capitolo che oggi si riconduce all’ “immagine elettronica” e alla computer graphic. Così come egli esibisce con giusto orgoglio la sua provenienza da una disciplina proverbialmente sospesa tra arte e scienza, l’architettura. Come si traduce tutto ciò ella concreta conformazione stilistica dei dipinti di Pagano, e in particolare in questa sua recente serie di sette lavori ispirati al mito di Cadmo, riveduto e corretto? Naturalmente, non ci meraviglieremo nel constatare una tale precisa assunzione di temi, fino quasi a sfiorare l’ambito dell’allegoria. O in altre parole, le figure assunte dell’artista vogliono “dire”, in modi favolosi e resi appetibili da forme e colori, i nuclei portanti dell’ideologia che ho cercato di tracciare sopra. Inutile seguire passo passo le singole “stazioni” di questo mito rivisitato. Basti dire che Cadmo diviene l’eroe della fondazione europea, anche e soprattutto sul piano linguistico, evadendo dalla confusione degli idiomi che caratterizzò la biblica Torre di Babele, e fondando l’alfabeto, lo strumento attorno a cui si è costruita l’unità e l’identità europea, pur minacciata dall’incresciosa diaspora provocata dal sorgere delle lingue nazionali (cui appunto l’esperanto ha cercato di porre rimedio). È dunque un mito “antico”, questo che Pagano intende svolgere, seppur caricato di contenuti attuali; occorre allora che anche le forme assumano una veste “neo-antica”, riportata ai valori di una Grecia arcaica, e alle sue risorse stilistiche.
Pare infatti di essere in presenza delle iscrizioni magre, essenziali, deliziosamente ingenue dell’arte vasaria, così come emerge dagli scavi. E anche i supporti che le ospitano sembrano ignorare la razionalità perentoria dell’angolo retto, ma riproducono volentieri i tremori di mano, le imperfezioni cui sottostava il remoto vasaio, nel modellare le sue suppellettili; ed è anche questo un modo per respingere il ritorno al “quadro”, all’impassibile e implacabile formato rettangolare caro all’era gutemberghiana.
Beninteso, questi vari aspetti neo-arcaici, neo-artigianali sono legittimati dal poderoso testacoda di cui si rende artefice la rivoluzione elettronica, che non sa che farsene, delle sapienze e dei rigori della geometria euclidea, del sistema fondato sulla normalità dell’angolo retto, e riaccredita di colpo tutte le possibili libertà, sgrammaticature, idiosincrasie. Ma soprattutto, il mezzo elettronico si esprime attraverso gli impulsi puntuativi dei picsel, che a loro volta, confermando il grande testa-coda storico, sembrano ritrovare il minuto bombardamento ottico delle “tessere” musive. Gli uni e le altre invischiano la figurazione, la rallentano, la obbligano a procedere con gesti parchi e rattenuti, pausati e solenni; o in altre parole, le impongono l’obbligo della stilizzazione. Col che si conferma il carattere neo-antico, deliziosamente arcaizzante, delle immagini di Pagano, il loro accamparsi sulla superficie, descritte a fior di pelle, con un segno magro ed essenziale, una castità di tracciato che d’altronde trova uno straordinario compenso nel lussureggiare del manto costituito dalle tessere musive, ovvero dai picsel elettronici.
Si spiega così come la magrezza delle figure, la loro povertà francescana, riesca a convivere assai bene con un’opulenza decorativa. Questo è un tratto comune di tutte le età “primitive”, di tutti gli arcaismi rintracciabili sul filo della storia, o della preistoria, secondo quel gusto enciclopedico che è dei nostri tempi, e che un video-disco potrebbe consentirci di memorizzare, travasandoli nel suo linguaggio del resto così vicino a loro, così congegnale. Possiamo allora passeggiare a piacere tra un’evocazione e l’altra: pensare ai mosaici ravennati, ma anche al divisionismo di fine-Ottocento, che fu già a quei tempi un tentativo di ritrovare una figurazione molto naïve. E si ricordi del resto che l’estrema divisione puntuativa dei picsel o delle tessere musive dà luogo a un effetto non molto distante dalle stesure compatte dell’à plat: i mosaici bizantini vanno a braccetto con gli smalti, o con le tappezzerie, con le vetrate gotiche, così come Seurat, in eterno, è sempre sul punto di intersecare la rotta apparentemente opposta di Gauguin. E anche a livello di mass media, le immagini stilizzate dei videogames, ottenute attraverso i tipici effetti sgranati e pulviscolari del bombardamento elettronico, non sono poi molto diverse da quelle unitarie e sintetiche dei fumetti. Tutte queste ragioni stilistiche coesistono, vibrano, ronzano con tono sommesso nei dipinti di Pagano, ne costituiscono la nota dominante, fatta di sobrietà unita ad un delirio freddo, ben amministrato. E a loro, volta i dati di prima pelle, il pulviscolo cromatico, l’arcobaleno vivace, la sagomatura elegante e agile, convivono assai bene con i motivi ideologici. Non è un caso se nelle stagioni in cui dominava la tecnologia “dura” e impositiva della macchina gli artisti miravano a raggiungere rappresentazioni prive di fantasie, pronte a respingere i valori decorativi, a calarsi in un pesante illusionismo ricco di dettagli; mentre in tutte le altre stagioni poste all’insegna di tecnologie “soffici” il messaggio affidato a figure convenientemente astratte ed essenziali si è sempre congiunto con una festa, con un tripudio di piaceri ornamentali. Per restare agli esempi già messi in campo, i mosaici ravennati conciliavano un massimo di pregnanza iconografica, al limite con l’allegoria, e un’esuberanza decorativa straripante; così si dica anche per le grandi composizioni simboliste di Seurat, di Gauguin, di tutti i loro compagni di via. Questo discorso vale in pieno anche per il loro nipote Giorgio Pagano.
Renato Barilli