Non c’è un patriottismo europeo, parola di ambasciatore»

II Gazzettino 27.04.2004 p. 11

L'INTERVISTA Ludovico Incisa di Cammrana, per lunghi anni diplomatico e poi segretario agli Esteri, non è sorpreso dal disinteresse con cui gli italiani (ma non solo loro) stanno vivendo l'allargamento della UE

«Non c'è un patriottismo europeo, parola di ambasciatore»

Paghiamo lo scotto di aver scelto la strada di un'unità perseguita attraverso le funzioni. Così ognuno si preoccupa soltanto di coltivare il proprio orticello

Ludovico Incisa di Camerana è stato per lunghi anni ambasciatore italiano in Sudamerica e in altri Paesi di lingua spagnola, sottosegretario agli Esteri nel governo Dini ed è un profondo conoscitore dei meccanismi che hanno portato all'allargamento dell'Europa. E non è per nulla sorpreso dal disinteresse o dal distacco con il quale viene vissuto dall'opinione pubblica italiana l'ingresso di altri dieci Paesi nell'Unione Europea. AI motivo è semplice: non è mai nato il “patriottismo europeo”». Eppure fino a qualche anno fa c'era un grande entusiasmo attorno all'Europa. «La società civile aveva inizialmente un grande entusiasmo perché sperava di duplicare il patriottismo nazionale in una nuova forma di patriottismo europeo. Ma si è accorta che le due cose non sono conciliabili. L'Europa rimane una grande prospettiva unitaria di sicurezza sia politica sia economica; ma si guarda ad essa con pessimismo. C'è l'Euro? Sopportiamo l'Euro. L'Europa è “sopportata”. Certo, è un problema generale e non riguarda solo l'Italia. Non essendoci un'idea precisa di dove arriverà l'Europa nel futuro, c'è una certa diffidenza». L'Europa manca allora di un vero e proprio progetto? «Non c'è più la percezione di un progetto generale. Non c'è più l'aspettativa di un superstato europeo, almeno nella convinzione della gente. Quindi ci si torna ad occupare del proprio Stato nazionale, senza conoscere gli altri Stati perché non si è avuto il tempo e la voglia di imparare a conoscerli». A chi gioverà l'ingresso di dieci Paesi dell'Est? «Sono convinto che sia un fatto positivo soprattutto per l'Italia; i due più avvantaggiati dall'incorporazione dei Paesi dell'Est saranno Italia e Germania».Eppure soprattutto sul confine tra Italia e Slovenia permangono timori e diffidenze. «È un fenomeno caratteristico delle zone di frontiera, che sono state nei secoli zone di scontro. Qui è più facile vedere con favore a Budapest piuttosto che a Lubiana. Ma non si può prendere l'Ungheria senza la Slovenia. Se si facesse un sondaggio separato, Paese per Paese, si vedrebbe che la Polonia, l'Ungheria, la Slovacchia riceverebbero un gradimento maggiore». Perché il vicino fa sempre più paura? «C'è un retaggio storico che pesa; è inevitabile». La colpa sta anche nel modo in cui l'Europa si è sviluppata negli ultimi anni? «L'Europa poteva scegliere tra due strade di sviluppo: una strada politica, che è quella tentata negli anni '50 con la creazione di una comunità di difesa e di una comunità “politica”. Si è scelta invece una seconda strada, quella di un'unità perseguita attraverso le funzioni: ossia prima un accordo su un argomento, poi un altro, e via di seguito. Questo è accaduto anche per l'ingresso dei nuovi Paesi, ed è frutto dell'estremo tecnicismo che ha ispirato la nascita di questa Europa». Ha vinto l'Europa dei burocrati? «Pensi all'Euro: con un'unità politica avrebbe avuto ben altro senso. Adesso ha solo un valore economico. I passaggi a un'Europa a 8, poi a 12, poi a 15 e oggi a 25 non sono stati seguiti dallo stesso spirito con cui era nata l'Europa a 6. Il tessuto europeo si è ampliato ma si è sfilacciato». Allora il processo di allargamento è stato fatto troppo lentamente? «Troppo lentamente e senza entusiasmo. Sarebbe stato diverso se l'avessimo fatto nel '90, subito dopo la caduta del comunismo. Avrebbe avuto un grande significato morale. Questo ritardo nell'ampliamento dell'Europa è un vizio che ci portiamo dietro; anche la Spagna e il Portogallo sono entrati in un secondo momento. L'Inghilterra non ha ancora adottato l'Euro. E ogni ingresso non è stato accompagnato da un punto di vista politico, di unità democratica, di sistema, di ideale. E stato preso solo sotto un aspetto economicistico». Questo distacco è forse dovuto al fatto che il costo dell'Euro è stato pagato salato dai cittadini italiani? «Certo, ma questo non è accaduto solo in Italia. La mancanza di entusiasmo per l'Euro è comune in tutta Europa. La Svezia l'ha addirittura rifiutato con un referendum. Questo fatto che l'Europa diventi sempre più arida dal punto di vista idealistico, cosa che non sarebbe avvenuta se per esempio nell'89-'90 si fosse inglobata subito l'Europa dell'Est, è dovuto soprattutto al fatto che ogni ingresso è frutto di estenuanti negoziati sui quali i cittadini sanno poco, o ne conoscono solo gli aspetti negativi». Si conoscono solo i guai che comporta l'arrivo di un nuovo Stato. «Esatto: se la produzione delle mele ci guadagna, gli agricoltori sono contenti, se invece ci rimette qualcosa, l'Europa fa schifo. Non c'è una visione d'insieme, ma ciascuno è ancora preoccupato del proprio interesse particolare, del proprio orticello. Questo procedere con un'evoluzione graduale ha dato dell'Unione europea una visione tecnicista e ha spento gli entusiasmi». Si può dire che guardiamo all'Europa attraverso il buco della serratura della nostra casa? «Sì, ma ripeto che non è un fenomeno solo italiano. Dal momento che si è data prevalenza all'aspetto economico, si sono toccati nervi sensibili di certi settori. La società civile poi non ha fatto molti progressi: è stato imposto un dogma europeista che non è mai stato discusso in maniera critica, così da renderlo condiviso».
Ario Gervasutti

Questo messaggio è stato modificato da: Carlotta.Caporilli, 27 Apr 2004 – 14:25 [addsig]

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