Un volume illustra i mille modi di utilizzare la nostra lingua nella stesura dei testi che poi hanno costituito il bagaglio più popolare e conosciuto: quello che fa cantare milioni di concittadini
Cinquant’anni di musica non passano invano. Da «Volare» di Domenico Modugno (1958) a «La forza mia» di Marco Carta (2009) passando per «La paranza», «Ti appartengo», «Ti regalerò una rosa», «Papaveri e papere», «Se telefonando», «Wanda», o «Certe notti». Gli esempi sono mille, impossibile citarli tutti. Mezzo secolo di musica italiana in sei capitoli per 242 pagine è il bilancio di un libro appassionante al di là del tono scientifico che dimostra. «Ma cosa vuoi che sia una canzone» (Il mulino, pp. 242, euro 16) è un volume scritto da un docente di linguistica italiana a Cassino, Giuseppe Antonelli, che compie veri e propri raid nei testi delle più famose canzoni italiane per vedere ed esaminare come la lingua italiana è stata manipolata e utilizzata ai fini canori. Ne esce un quadro accattivante per infinite ragioni. Innanzi tutto per il materiale che utilizza, tutto estremamente familiare alla gran parte dei lettori che troveranno citazioni di intere strofe, versi e ritornelli che infinite volte ha canticchiato per proprio conto oppure in compagnia. In secondo luogo perché la trattazione di Antonelli è interessante e fa luce su un uso della lingua italiana spesso discusso e dibattuto.
Una delle caratteristiche che spesso saltano all’occhio, o meglio all’orecchio, è costituita dall’accentazione di parole sdrucciole (musica, limpida, isola, stomaco) o semisdrucciole che subiscono il destino di ritrovarsi un doppio accento nell’uso che della lingua fa, ad esempio, Max Pezzali che spesso indulge su pronunce sulla falsariga di mùsicà. Un tasto interessante riguarda anche i verbi e i particolare i tempi utilizzati. Il passato remoto è il meno usato e un esempio lo si ritrova nella «Banda», hit del 1967 portato al successo da Mina mentre il futuro è largamente il più frequente e ne è un caso classico «La donna cannone» di De Gregori (1984) costruita interamente su questo tempo verbale.
Interessante anche l’analisi condotta sulle figure retoriche che abbondano nei testi delle nostre canzoni, dal forzato enjembement su cui è costruita «Xdono» di Tiziano Ferro che tronca ogni verso per legarlo al successivo separando l’articolo determinativo dal sostantivo di riferimento. Un artificio che viene sottolineato anche durante l’esecuzione della canzone da un preciso modo di spezzettare la frase, proprio dell’artista. Si pensi poi alle frequentissime anafore, con la ripetizione forzata di un ridotto numero di parole a inizio verso. Un esempio è «Vita spericolata» di Vasco Rossi o «Come saprei» di Giorgia.
Spesso tuttavia i testi delle canzoni hanno ricordato anche il verseggiare poetico che Antonelli prende in considerazione accanto al rock e al rap. Modi diversi di utilizzare la lingua, in qualche caso forzandola, stropicciandola, in altri casi rendendola aulica, solenne, importante. Per quest’ultimo caso si guardi ai testi di Angelo Branduardi, talvolta ricavati addirittura da lirici greci dell’antichità come «Notturno», se non da filastrocche datate ma popolari come «Alla fiera dell’est». Uno spazio di rilievo è riservato invece alla contaminazione attraverso l’utilizzo di idiomi stranieri come l’uso frequentissimo di parole inglesi, o l’utilizzo di francese o spagnolo, anch’essi ricorrenti in moltissimi testi.
Per chi ama la musica e, in particolare, la canzone italiana il volume di Antonelli si rivela una lettura importante, che pur nella scientificità con cui la materia viene trattata attraverso un’attenzione precisa e un apparato di note minuzioso e curato, si rivela pur sempre un momento di riflessione e di apprezzamento sulla lingua con la quale cantiamo i momenti felici e spensierati della nostra vita.