di David Bidussa (da “Il Secolo XIX” del 5 novembre 2008)
Non so come si sono risvegliati gli Stati Uniti stamani. So invece come ci siamo svegliati noi europei: abbiamo davanti all’interrogativo del nostro domani possibile, ma non deciso da noi e a cui ci siamo illusi di partecipare facendo il tifo. Infatti, in tutti questi mesi, descrivendo un’America alla riscossa capace di sognare in realtà noi abbiamo parlato di noi e riflettuto sul nostro presente, senza avere né la forza né l’entusiasmo di provare a inventarlo e di fuoriuscire così dalla propria crisi. Se è vero che l’America con queste elezioni, comunque vada, prende congedo dalla sua dimensione imperiale, è anche vero che molti fuori dagli Stati Uniti si aspettano che il nuovo ciclo ricominci da lì e che da lì vengano le idee.
In questa non consapevolezza sull’entità della crisi sta anche una lettura distorta dello scenario futuro che sarà caricato sulle spalle del prossimo Presidente degli Stati Uniti. Comunque vada, il tema sarà la ripresa dell’America, dei suoi consumi interni, della ricerca di un nuovo patto di fiducia interno. L’Europa, in questi mesi di relativo stallo americano aveva la possibilità – volendolo – di provare a muoversi. Non lo ha fatto. E’ saggio capire come e perché un vuoto europeo molto più preoccupante di quello americano.
Ci sono molte cose vere sulla crisi americana che si riverbera sulla nostra quotidianità: è vero il fatto che negli ultimi anni gran parte della divisione politica dell’Europa è stata conseguenza delle scelte di politica internazionale dell’amministrazione americana. E’ vero, inoltre, che nella stessa natura della crisi economica che ci coinvolge sta una lunga catena di comportamenti che hanno la loro origine nel sistema americano, in un’economia sempre più irreale fatta di finanza e non di sostanza.
L’Europa, dunque, avrebbe avuto la possibilità di riprendersi in mano una parte di presente e di candidarsi ad avere un futuro proprio perché tutte le sirene del progresso e della ricchezza che avevano cantato e suonato negli ultimi otto anni hanno mostrato la loro precarietà. Un discorso che non riguarda solo il tempo dell’amministrazione Bush, ma risale ai primi anni ’90 quando la lieta novella della fine della storia diffusa da Francis Fukuyama e che per alcuni anni infiammò d’entusiasmo tutti, convinti che il crollo dell’impero sovietico aprisse una nuova stagione in cui tutti indistintamente avrebbero trovato un posto nel treno pacificato della storia universale in marcia verso la felicità.
Come sappiamo non è andata così e a venti anni di distanza dall’”indimenticabile ‘89” ci troviamo a fare i conti con l’incubo di sapere o meno (più spesso di non sapere) se abbiamo un futuro dignitoso oppure no (a breve nel frattempo la domanda è se arriviamo e come alla fine del mese).
L’Europa in questo scenario, anziché proporre politiche ha trasformato la politica in una condizione di tifoseria. Per vari motivi è accaduto: per aver rifiutato di avviare con coraggio una riforma concreta dei propri assetti; perché affascinata dalla riscoperta delle proprie radici di autenticità, pensando che questo costituisce di per sé una ricetta. E così si è raccontata le proprie paure ma senza intraprendere una via razionale per risolverle; non ha espresso una leadership politica rinnovata o ha affidato sulle spalle della presidenza di turno dell’Ue, in questi mesi il Presidente Nicolas Sarkozy, un ruolo senza poi supportarlo veramente (sulla Cina; sulle politiche energetiche, su quelle migratorie, su quelle ambientali).
L’Europa è in crisi, per certi aspetti più profonda degli Stati Unti perché sembra senza risorse. Ma soprattutto, ed è qui la vera natura della crisi europea, per mancanza di un proprio progetto su cui misurare e confrontare il senso della proposta politica propria di entrambi i candidati che si confrontavano al di là dell’Atlantico. Un vuoto che continua a rinviare problemi che riguardano il nostro domani immediato: sul piano dello sviluppo della ricerca scientifica (e dunque sul futuro del suo sistema educativo e professionale); sulla politica internazionale, in particolare in Medio oriente, nel Mediterraneo e in Africa.
In questi giorni molti hanno sottolineato che dietro la scelta di prevalente simpatia per Barak Obama da parte degli europei ci sta un vecchio antiamericanismo, comunque la critica all’amministrazione Gorge W. Bush interpretata come l’anima vera dell’America. Ne dubito. Dietro questa scelta sta una dimensione più drammatica e anche più triste: la delega a qualcuno che si presenta come il cambiamento nel proprio paese, di operarlo anche per conto terzi, vista l’incapacità di renderlo possibile qui. Detto diversamente: il riconoscimento implicito del proprio vuoto. Una pessima premessa per il futuro, quello sì che ci riguarda direttamente, e che ancora una volta abbiamo semplicemente messo da una parte, affascinati solo dalla dimensione mediatica del circo americano, non dal confronto sui contenuti e sulle loro possibili conseguenze o relazioni con noi. Non è l’effetto di un incantesimo. E’ la conseguenza di non aver deciso e scelto il proprio futuro e quindi di farselo raccontare dai sogni degli altri o di sperare di condividerli, senza passare per il processo che sta alla base di una scelta: sapere che cosa si vuole, e, soprattutto, avere consapevolezza di che cosa non si vuole più.