Londra in crisi si aggrappa all’euro

Dove va la Gran Bretagna
Congiuntura e prospettive

Gli indicatori. Pil stagnante e disoccupazione a livelli da record
Le ricette. I tagli di Cameron non hanno dato i risultati sperati

Londra in crisi si aggrappa all`euro
La recessione è un rischio, ma il vero pericolo è l`effetto-domino legato al crollo della valuta Ue

di Leonardo Maisano

Norman Lamont sfila dalla libreria una copia di In Office, le sue memorie di Cancelliere dello Scacchiere nel governo conservatore di John Major, si ferma a pagina 453 e sorride. «Lo avevo detto, lo avevo scritto. L`euro non ce la farà. Supererà, magari, questa crisi e, zoppicando, tirerà avanti ancora un po`, qualche anno. Poi basta. Legga qui…». Il presagio dell`uomo che portò il pound fuori dal meccanismo di cambio dello Sme, nelle ore caotiche di un nerissimo mercoledì dell`estate 1992, potrebbe compiersi prima. Essere addirittura alle porte o non avvenire mai, come ha ipotizzato, ecumenico, il governatore della Bank of England Mervyn King nell`annunciare «piani d`emergenza per far fronte a una minaccia senza uguali». Tempi incerti per gli ipotetici funerali di una moneta che a Londra prevedono in tanti e temono tutti. Anche gli euroscettici sono abbarbicati al destino della valuta comune, consapevoli che in caso di dissoluzione rilascerebbe un fall out capace di sprofondare il mondo in recessione. Certamente Londra, appesa com`è a una crescita dello 0,9% nel 2011-2012 e dello 0,7 nel 2012-2013. Tanto basta a mandare in scena il comprensibile e bizzarro fenomeno di un Paese che tifa euro non avendolo mai amato. Il prezzo per salvarlo potrebbe essere caro, ma molto meno oneroso, anche per la Gran Bretagna, di un ritorno alle divise nazionali che Norman Lamont immagina essere destino ineludibile. Londra ha forse tolto il punto interrogativo al "che fare?" che da anni la angustia. Scivola verso un progressivo chiarimento del rapporto con l`Unione, verso la condizionata accettazione di crescente impotenza con un`eurozona sempre più integrata e un`Unione più lasca. Lo fa sfoderando l`antico pragmatismo, vincente su qualsiasi retaggio ideologico. Europa ed euro, infatti, incrociano troppo pesantemente, in queste ore, il cammino economico, politico e sociale britannico per consentire incertezze. È di due giorni fa il più massiccio sciopero degli ultimi trent`anni, lanciato dalle Unions in segno di protesta contro la riforma delle pensioni dei dipendenti pubblici, parte del radicale risanamento avviato da Londra per gestire le conseguenze del credit crunch. Un`operazione che non va come dovrebbe.
L`azzeramento del deficit strutturale previsto per il 2014-2015 è slittato al 2016-2017, due anni che pesano come un macigno perché mandano in pezzi il piano del premier David Cameron e del vice premier Nick Clegg. La coalizione conservatori-liberaldemocratici sperava di arrivare a fine legislatura con un Regno risanato e invece porterà al voto, fra tre-quattro anni al più tardi, un Paese incatenato a un impoverimento relativo che non ha precedenti. Nel 2015, infatti, secondo le proiezioni dell`Institute for fiscal studies, i cittadini britannici avranno un reddito medio reale per nucleo famigliare inferiore a quello del 2002, conseguenza di un ciclo mai visto da decenni.
Nelle carte illustrate dal Cancelliere George Osborne in occasione dell`Autumn statement, qualche giorno fa, si leggono proiezioni dolorose a cominciare dai 710 mila posti pubblici spazzati via, il doppio circa di quanto era stato previsto un anno fa. Né funziona, nella misura desiderata, l`equazione che il governo immaginava: calo dei posti statali a fronte di un aumento del lavoro nel settore privato. Banche e imprese si rimbalzano le responsabilità, con le prime che dicono di aver messo a disposizione linee di credito adeguate e le seconde che non vedono filtrare danaro nell`economia reale. Fenomeno che trova conferma nel Financial stability report della Banca d`Inghilterra secondo il quale «un secondo credit crunch» potrebbe già essere in atto nel Regno Unito.
Le banche, pietra angolare di servizi finanziari che continuano a rappresentare il 10 % del Pil britannico, restano la nota più dolente. Il rapido, deciso intervento del governo a tutela degli istituti di credito nel 2008-2009 s`è rivelato vincente, ma il costo è elevato: Rbs e Lloyds valgono oggi 30,6 miliardi di sterline meno di quanto pagato dal Tesoro lasciando i contribuenti con un`esposizione totale al salvataggio delle banche che sfiora i 40 miliardi di pound.
«Un decennio perduto», quello in corso ha commentato Robert Joyce l`economista che ha preparato il documento dell`Institute of fiscal studies. E forse più visto che l`impianto disegnato dal Cancelliere ha solo sei probabilità su dieci di essere centrato, secondo gli analisti a cui si affida lui stesso. Potrebbe andare molto peggio. Il pendolo rischia di spingersi ancor più in terreno negativo odi rinculare, marginalmente, in positivo a seconda di come si svilupperà la crisi dell`euro. George Osborne è stato franco nel riconoscere che Londra è premiata dai mercati con condizioni sul debito inglese più vantaggiose di quelle garantite al Bund. Fenomeno che non è detto si debba vedere per molto tempo ancora nonostante l`indipendenza della Bank of England e la credibilità dell`azione di governo.
Il peggioramento del quadro macroeconomico britannico rischia di indebolire la fiducia dei mercati e ha scalfito (appena appena), la Tripla A. Fitch è stata esplicita nel ricordare che «la capacità di assorbimento del Paese si è esaurita», che cioè un nuovo peggioramento potrebbe mettere a repentaglio il rating di Londra, destinata a diventare la Tripla A con il più alto debito pubblico, dopo gli Usa.
Tutto, anche oltre la Manica, è appeso alla salute della divisa comune. E basta per mettere a tacere chi paventa le conseguenze di una maggiore integrazione dell`eurozona. David Cameron lancia segnali di rassicurante sostegno ai partner, tacciono, in queste ore, anche i deputati euroscettici che settimane fa chiesero un referendum per l`uscita dalla Ue. Una sordina che si spiega solo con l`emergenza di questi giorni e con lo scenario che Londra vede delinearsi. «Stiamo scivolando lentamente verso forme di unione fiscale dell`eurozona – ha scritto di recente l`ex premier John Major – e i membri non euro della Ue potranno ritrovarsi ai margini del processo decisionale. All`integrazione dei diciassette gli altri dieci partner dovranno replicare con maggiore coordinazione. Lampi di confronto…». Di scontro, in realtà, da consumarsi in tempi successivi a queste ore di emergenza, ma destinato a esplodere.
La Gran Bretagna non farà fatica a coordinarsi con i membri fuori dall`eurozona, come indica John Major, perché potrebbe ritrovarsi in compagnia dei soli partner nordici, essendo gli altri, dai polacchi in poi, in lista d`attesa per aderire alla moneta comune. Per accettare la relativa emarginazione che comporta un euro più solido, chiederà, non appena la congiuntura lo renderà possibile, la rinazionalizzazione di politiche specifiche con attenzione al mercato unico e con i fari ben illuminati sulla City. La linea Maginot britannica è e continuerà ad essere la tutela della propria industria finanziaria. L`unica partita per la quale è sempre pronta a far saltare il banco.

il Sole 24 Ore, pag 23
3/12/11

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