Lingue Internazionali e Diritti Umani Internazionali

  

 

Lingue Internazionali e Diritti Umani Internazionali
ROBERT PHILLIPSON
Da Language. A right and a resource. Approaching Linguistic Human Rights. Kontra, M. et al. (eds), 1999, Central European University Press.

Questo articolo investiga su come alcune lingue sono diventate “internazionali” e cita esempi della promozione e legittimazione di quella più diffusa, l’inglese. Si tratta il problema dei diritti linguistici in relazione alla gestione del multilinguismo in organizzazioni sovrastatali come la Società delle Nazioni e le Nazioni Unite, e nel più ambizioso e ampio amalgama di stati, l’Unione Europea. Si considerano alternative all’uso di un numero ridotto di lingue ufficiali, nel caso in cui questo sistema si dimostri ineguale nel rispettare i diritti dei parlanti di diverse lingue. Si suggerisce anche che l’impatto delle lingue internazionali su quelle nazionali va contro i principi dei diritti umani.

Lingue Internazionali
La lingua è sempre stata la compagna dell’impero, e sempre resterà sua amica.

(Nebrija 1492, citato in Illich 1981, 34)

Il significato comune del termine “lingua internazionale” è: una lingua che persone di differenti nazioni usano fra loro. In questo senso ci sono molte lingue internazionali in uso su tutti i continenti, dal portoghese allo hindi, dal latino all’arabo classico e ai vari esempi di “lingua franca” e pidgin in ambiti localmente più ristretti.
Il termine “lingua internazionale” è stato anche usato per riferirsi a lingue artificiali o pianificate come l’esperanto, lingue create specificamente per facilitare i collegamenti e la comprensione internazionale, e che a volte sono anche chiamate lingue internazionali ausiliarie. Gli utenti di queste lingue non hanno come base alcuna nazione o stato, in marcato contrasto con le lingue nazionali trapiantate in tutto il mondo come l’inglese, il francese e lo spagnolo.
La dominazione linguistica ha le sue origini nella conquista, nell’asservimento militare e politico, e nello sfruttamento economico. Il ruolo della lingua nell’espansione di un impero è stato un elemento centrale dell’europeizzazione del mondo. L’implicita politica linguistica venne espressa in un documento (esempio pionieristico di pianificazione linguistica) presentato alla corte spagnola nel 1492 (si veda la precedente citazione da Nebrija). All’epoca le lingue dominanti in Europa erano parlate solo da pochi milioni di persone e non avevano alcun ruolo internazionale. Lo status contemporaneo delle lingue inglese, francese, spagnola e portoghese indica il modo spietato ed efficiente in cui venne applicato il principio dell’imposizione delle lingue.
Raramente le potenze coloniali erano preparate ad ammettere che lingue e culture diverse dalle loro avessero un valore intrinseco e dei diritti. I linguisti hanno seguito le orme di Nebrija nel legittimare le gerarchie coloniali delle lingue (Calvet 1974; Crowley 1991). Le egemonie internazionali influenzano le credenze e gli atteggiamenti nei confronti delle gerarchie linguistiche, e si legano all’assegnazione di maggiori risorse alla lingua dominante.
Nel periodo fra le due guerre mondiali, il fantasioso progetto di dar luogo a una forma ristretta di inglese come “lingua internazionale ausiliaria”, il BASIC English (BASIC – British American Scientific International Commercial) venne promosso nella speranza di eliminare le lingue minori: “Il mondo ha bisogno di un migliaio di lingue morte – e di una viva – in più” (Ogden, 1934, citato in Bailey, 1991, 210). Il concetto di “comprensione internazionale” era visto come unidirezionale, con tutte le altre lingue che dovevano essere abbandonate in favore di quella dominante, l’inglese, resa più accessibile attraverso la semplificazione.
L’imperialismo linguistico ha invariabilmente presupposto la superiorità della lingua dominante, sia nel mondo coloniale sia in quello postcoloniale (Mühlhäusler 1996; Phillipson 1992). I britannici e gli americani hanno creato una infrastruttura accademica per servire la promozione dell’inglese nel mondo[1].
Le nozioni della superiorità dell’inglese e della sua adeguatezza come lingua internazionale per eccellenza hanno un lungo pedigree. Uno studio dettagliato dell’immagine dell’inglese nella storia conclude che “le idee linguistiche evolutesi all’apice degli imperi guidati dalla Gran Bretagna e dagli USA non sono cambiate con l’avvento del colonialismo economico al posto della diretta amministrazione politica delle nazioni del terzo mondo. L’inglese è ancora considerato come l’inevitabile lingua del mondo; le ragioni della posizione preminente dell’inglese negli affari globali sono le stesse che furono elaborate per la prima volta nel diciannovesimo secolo” (Bailey 1991, 121).[2]
Un esempio recente di questo trionfalismo è fornito da una campagna apparsa in prima pagina su un tabloid londinese nel novembre 1991, in un’epoca nella quale l’adesione del governo britannico all’Unione Europea era tiepida e il contributo britannico all’integrazione europea minimo: “Se l’Europa deve avere un futuro, avrà bisogno di qualcosa di più di una moneta comune, una politica estera comune e un insieme comune di leggi. L’Europa deve avere una lingua comune. Questa lingua può solo essere l’inglese”. (Daily Mail, 29 novembre 1991).
Gli stati che resistono all’avanzata dell’inglese e reclamano uguali diritti per le loro lingue sono etichettati come “sciovinisti”, affetti da “anacronistico orgoglio nazionale”. Alla base sembra esserci la convinzione che se l’inglese è stato imposto con successo come lingua dominante in stati come Regno Unito e USA, lo stesso processo potrebbe essere applicato a livello continentale (europeo) e globale. Se il monolinguismo può trionfare in una nazione (o così appare), perché non dovrebbe farlo a livello internazionale?

Quali interessi servono le lingue internazionali?
Quello che è avvenuto durante la mia vita è l’americanizzazione del mondo.
(George Bernard Shaw, nato nel 1856, frase scritta nel 1912)

Il governo britannico è ben consapevole dei vantaggi politici che derivano alla Gran Bretagna dalla posizione privilegiata dell’inglese[3], e dell’impatto sull’economia che ne risulta[4]. I media applaudono uniformandosi a questo spirito[5]. C’è un flusso continuo di libri sui vari aspetti dell’inglese nel mondo, e non tutti sono ingenuamente celebrativi[6]. Il British Council ha recentemente commissionato una pubblicazione sul futuro dell’inglese (Graddol, 1997). Si tratta di un’analisi ponderosa e multidimensionale che prende in considerazione il ruolo di diversi fattori (economici, tecnologici, politici) che in futuro potrebbero spingere altre lingue fino alla posizione di lingua internazionale dominante.
Il contesto attuale è un contesto di “McDonaldizzazione”, di asimmetria strutturale dovuta al potere economico e simboleggiata dal fatto che l’80% dei film proiettati in Europa occidentale sono di origine californiana, mentre il 2% dei film mostrati in Nord America sono di origine europea. La McDonaldizzazione può essere vista come la creazione di clienti globali, servizi globali e fornitori globali; “il commercio aggressivo e in tempo reale, il controllo sull’informazione che non mette a confronto la popolazione con gli effetti a lungo termine di uno stile di vita ecologicamente distruttivo, la concorrenza spietata verso i fornitori locali di cultura, la chiusura degli spazi per l’iniziativa locale, tutto converge verso una riduzione dello spazio culturale locale” (Hamelink, 1994). Certe misure per tentare di contrastare questa influenza sono state prese dall’Unione Europea e dai singoli stati, in particolare la Francia, con l’obiettivo di proteggere la diversità culturale e linguistica: in quest’area le relazioni fra fattori economici, cultura e politiche linguistiche sono state esplorate, ma occorrono ulteriori elaborazioni (Grin & Hannis-Pierre, 1997).
Le pressioni globalizzanti del commercio e dei media si sommano al lavoro degli esperti di educazione che promuovono una “educazione globale”. Ci sono studiosi che prevedono un curriculum fondamentale globale in un sistema educativo globale, insieme a un sistema globale di titoli di studio e a organizzazioni globali per la certificazione della qualità nell’educazione e nella formazione[7]. Il curriculum globale proposto prevede sette ambiti fondamentali, uno dei quali è la lingua “mondiale” obbligatoria per tutti, cioè l’inglese, un secondo riguarda le altre lingue, che chi ha avuto la sfortuna di non nascere con l’inglese come madrelingua ha bisogno di imparare.[8] In effetti, questa visione dell’educazione presuppone due tipi di esseri umani: gli anglofoni (monolingui) e tutti gli altri (bilingui). E’ una ricetta per un ritorno a un mondo antidiluviano (pre-Babele) dove tutto ciò che conta viene prodotto in un’unica lingua.

Diffusione dell’Inglese, oppure Ecologia delle Lingue?
La globalizzazione non è un fenomeno emerso recentemente, anche se certe mode accademiche possono creare questa impressione. Le vere novità sono l’estensione e la profondità della penetrazione delle culture in tutto il mondo. Molte delle dimensioni delle politiche linguistiche contemporanee sono state efficacemente messe insieme in due paradigmi concorrenti dallo studioso giapponese della comunicazione Yukio Tsuda.

Paradigma della Diffusione dell’Inglese:
A. capitalismo
B. scienza e tecnologia
C. modernizzazione
D. monolinguismo
E. globalizzazione ideologica e internazionalizzazione
F. transnazionalizzazione
G. americanizzazione e omogeneizzazione della cultura mondiale
H. imperialismo linguistico, culturale e della comunicazione

Paradigma dell’Ecologia delle Lingue:
1. una prospettiva dei diritti umani
2. uguaglianza nella comunicazione
3. multilinguismo
4. conservazione delle lingue e delle culture
5. protezione delle sovranità nazionali
6. promozione dell’insegnamento delle lingue straniere

(Tsuda, 1994, lettere e numeri nostri; per un’elaborazione si veda Phillipson e Skutnabb-Kangas, 1996; Skutnabb-Kangas, 1999).

Le due percezioni contrastanti della posta in gioco si possono vedere in relazione alla politica linguistica in Africa, dove alcune forze tendono a favorire la diffusione dell’inglese, altre le ecologie linguistiche locali. Secondo Mazui (1997) le gerarchie linguistiche del periodo coloniale continuano a determinare le politiche educative della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, che attualmente basano i propri “aiuti” su azioni chiaramente antisociali e che creano povertà: “la posizione reale della Banca Mondiale … incoraggia il consolidamento delle lingue imperiali in Africa … sembra che la Banca Mondiale non veda l’africanizzazione linguistica dell’istruzione a tutti i livelli come uno sforzo che valga la pena considerare. Le sue pubblicazioni sulle strategie per stabilizzare e rivitalizzare le università, per esempio, non menzionano affatto il ruolo della lingua nel livello terziario dell’istruzione in Africa. … nei programmi di aggiustamenti strutturali della Banca Mondiale e del FMI, l’unica strada aperta per le nazioni africane è l’adozione delle lingue imperiali fin dall’inizio dell’educazione di un bambino” (Mazui, 1997, 39-40).
Il cosiddetto “aiuto” educativo riflette la convinzione linguicista[9] secondo cui solo le lingue “internazionali” (cioè europee) sono adeguate al compito di sviluppare le economie e le menti africane. La falsità di questa posizione è stata esposta da molti ricercatori africani, fra cui Ansre, Bamgbose, Kashoki, Mateene e Ngugi (bibliografia in Phillipson 1992; si veda anche Dijté 1993; e, in particolare sui diritti linguistici in Africa, Akinnaso 1994 e Phillipson & Skutnabb-Kangas, 1994).
Un approccio alternativo, basato sul rafforzamento delle lingue africane, si vede in una serie di documenti approvati da governi africani nei 15 anni scorsi e culminanti nella “Dichiarazione di Harare”, sottoscritta alla Conferenza Intergovernativa dei Ministri sulle Politiche Linguistiche in Africa, 20-21 marzo 1997 (riprodotta nella New Language Planning Newsletter, 11/4, giugno 1997). Essa afferma che appropriate politiche basate sulle lingue africane non sono state realizzate, e delinea molte strategie per rafforzare l’ecologia delle lingue locali. La promozione delle lingue africane è vista come centrale per i processi di democratizzazione e coesistenza pacifica: “… l’uso ottimale delle lingue africane come prerequisito per massimizzare la creatività africana e valorizzare le attività di sviluppo.

… un’Africa in cui la comunicazione scientifica e tecnologica sia condotta nelle lingue nazionali come parte della nostra preparazione intellettuale per affrontare le sfide del prossimo millennio.

… (i governi africani) fanno appello a tutti gli africani e a tutto il mondo perché ci si impegni in una chiara e franca cooperazione, nel rispetto dell’integrità dell’identità africana e nell’armoniosa promozione dei valori e della dignità umana a cui si dà espressione nelle lingue africane.”

Le politiche della Banca Mondiale e, in armonia con esse, le attività dei portatori di aiuti, consolidano la diffusione dell’inglese. La Dichiarazione di Harare, invece, cerca di rafforzare le ecologie delle lingue africane, di costruire sulla base del multilinguismo esistente, e di sfruttare le lingue locali per risolvere i problemi locali. L’inglese può sempre essere imparato come lingua straniera, ma non a scapito delle culture locali.
Questi esempi di dibattito sulle politiche linguistiche devono essere collocati nella loro realtà. Per valutare le gerarchie linguistiche globalmente, nel contesto postcoloniale, postcomunista o dell’Unione Europea, occorre guardare ai fattori economici e politici, all’assegnazione di risorse a certe lingue piuttosto che ad altre, alle ideologie che legittimano queste preferenze e che tendono a glorificare certe lingue e stigmatizzarne altre. Le teorie su lingua e potere, quelle della politica linguistica o della strutturazione sociale, quelle della lingua nella riproduzione educativa, vanno ancorate a un complesso mondo reale di scambi e negoziazioni egemoniche. E’ un mondo in cui la disuguaglianza è strutturata e legittimata dal linguicismo. La lingua “internazionale” inglese è considerata universalmente rilevante, malgrado sia abbondantemente documentato come il suo uso diffuso in contesti postcoloniali abbia servito gli interessi occidentali (cioè gli obiettivi della globalizzazione) anziché i bisogni della massa delle popolazioni di quei paesi.
Un paradigma dell’ecologia delle lingue ha un diverso punto di partenza. Esso assume che parlanti di lingue diverse hanno un eguale diritto di comunicare, che il multilinguismo è desiderabile e che valga la pena incoraggiarlo e facilitarlo, e che le politiche linguistiche dovrebbero essere guidate dai principi di equità e dai diritti umani.

Un intermezzo utopistico: proposte per una lingua internazionale autenticamente neutrale, l’esperanto, nella Società delle Nazioni e nel Parlamento Europeo
Ricordatevi che il solo mezzo per ottenere la pace è abolire per sempre la causa principale delle guerre: la dominazione di un popolo su altri popoli, residuo di un’antichità remota e anteriore alla civiltà.
(Zamenhof, 1915, citato in Centassi e Masson, 1995)

La Società delle Nazioni venne creata come un’assemblea che lavorasse per evitare conflagrazioni militari come la prima guerra mondiale. Il numero di membri oscillava fra i 40 e i cinquanta stati, mentre nelle attuali Nazioni Unite ce ne sono circa 200. Gli Stati Uniti d’America restarono fuori dalla Società delle Nazioni, nonostante il ruolo chiave giocato dal presidente Wilson nel fondare l’organizzazione.
La Società delle Nazioni dovette considerare in quali lingue le proprie deliberazioni dovessero essere condotte. Fino ad allora il francese era servito come principale lingua diplomatica (almeno nel mondo occidentale), anche se non a tutte le conferenze “internazionali”. Ai congressi dell’Associazione Universale Esperantista prima del 1914 alcuni governi erano ufficialmente rappresentati, non meno di 11 al congresso del 1910 (Centassi & Masson, 1995).
Raramente le organizzazioni internazionali prendono in seria considerazione l’uso di una lingua pianificata, una lingua neutrale non associata con una particolare potenza, una lingua facile da imparare per chiunque. Si tende a rifiutare l’esperanto senza una seria considerazione del perché esso potrebbe rappresentare un’alternativa a una lingua “naturale”.[10]
La possibilità di incoraggiare l’esperanto e addirittura adottarlo come lingua di lavoro venne considerata seriamente dalla Società delle Nazioni, ma incontrò una fiera resistenza da parte della Francia. Sull’esperanto si discusse parecchie volte fra il 1920 e il 1924, e vennero presi in considerazione i rapporti sull’apprendimento della lingua in 26 paesi. I delegati di undici stati (Belgio, Brasile, Cile, Cina, Colombia, Cecoslovacchia, Haiti, India, Italia, Persia, Sudafrica) raccomandarono nel 1920 che l’esperanto dovrebbe essere imparato nelle scuole “come un facile mezzo per la comprensione internazionale” (Lins, 1988, 49-61). Alcuni piccoli stati (alcuni dei quali asiatici) erano a favore di una lingua internazionale neutrale. Ma le forze che stavano dietro alle lingue degli stati membri più grandi prevalsero. L’ordine mondiale esistente avrebbe potuto essere minacciato non solo da una lingua neutrale, ma anche dai convincimenti politici pacifistici e utopistici di alcuni esperantisti.[11] L’opzione esperanto venne rifiutata, fatto che rimane anche oggi, eccezion fatta per alcuni riconoscimenti nominali e per lo stato consultivo presso l’ONU, l’UNESCO e il PEN Club internazionale.
Sull’esperanto esiste un’abbondante letteratura. Fra i fatti sociolinguistici più rilevanti ci sono: le varie migliaia di bambini, in tutto il mondo, che stanno crescendo (in oltre 2000 famiglie) con l’esperanto fra le proprie lingue madri; la fioritura della letteratura (prosa e poesia, originali e tradotte); l’uso in frequenti congressi scientifici su vari argomenti; il fatto che questa lingua possa essere appresa molto più velocemente delle altre, grazie alle sue regole grammaticali molto produttive e senza eccezioni; che nonostante il lessico di origine prevalentemente europea, la sua sistematicità la rende più facile da imparare per i non europei rispetto alle altre lingue europee; e che la conoscenza dell’esperanto permette di incontrare persone provenienti da un’ampia gamma di ambiti culturali e linguistici.
Nei rapporti interpersonali, l’assenza di collegamenti fra l’esperanto e qualunque nazione o stato può facilitare una comunicazione simmetrica, indipendentemente dalla lingua madre dei parlanti. A livello interstatale, nelle istituzioni che decidono il destino della popolazione mondiale, la mancanza di potere politico è naturalmente la principale debolezza di questa lingua. Solo gli stati potenti possono chiedere che le loro lingue abbiano uno status “officiale”.
L’idea di una lingua ufficiale nelle organizzazione sovrastatali risale ai primi anni della Società delle Nazioni, quando al francese e all’inglese si garantì uno stato paritario, stabilendo così “la finzione secondo cui un testo scritto in una lingua può essere riportato in qualunque altra lingua e che tutte le versioni risultanti sono esattamente uguali come significato” (Tonkin, 1996, 14).
Lo stesso principio di equivalenza testuale vale per l’Unione Europea con le sue 11 lingue ufficiali, con in teoria lo “stesso” contenuto semantico espresso in ognuna. Chiunque sia familiare con i processi e i prodotti della traduzione sa che quadrare il circolo della differenza concettuale, culturale e linguistica è un ideale utopistico, ben lontano da come operano le diverse realtà. Per esempio, il sistema legale in ognuno dei 15 stati membri dell’Unione Europea si è evoluto in modi distinti, e i testi non possono mai significare esattamente “la stessa cosa” in ogni lingua e cultura.
Ci sono comunque delle forze che tentano di persuadere il Parlamento Europeo a prendere seriamente in considerazione l’opzione Esperanto, e un numero crescente di Parlamentari Europei è – a quanto si rapporta – interessato a un dibattito in proposito. Un’audizione è stata tenuta nel 1993, e ne è prevista un’altra su temi riguardanti più in generale la politica linguistica.[12] In ultima analisi ciò riflette il fatto che le istituzioni sovranazionali dell’Unione Europea sono, in linea di principio, favorevoli al multilinguismo e all’uguaglianza linguistica, anche se le gerarchie linguistiche correnti militano contro: certe lingue sono più uguali di altre, specialmente il francese e l’inglese.
L’Associazione Universale Esperantista sta tentando di influenzare le politiche linguistiche nelle organizzazioni internazionali. Il Manifesto approvato nell’81° Congresso Mondiale a Praga nel 1996 elenca alcuni principi sostenuti dalla “lingua internazionale Esperanto”. Essi comprendono la democrazia, l’educazione globale, il multilinguismo, i diritti linguistici, la diversità delle lingue e l’emancipazione umana. I due principi più rilevanti a questo proposito sono:
Democrazia. Un sistema di comunicazione che privilegia nettamente alcuni uomini, ma richiede ad altri di investire anni di sforzi per raggiungere un livello inferiore di capacità, è fondamentalmente antidemocratico. Sebbene, come ogni altra lingua, l’esperanto non sia perfetto, esso supera di gran lunga ogni rivale nel campo della comunicazione a livello mondiale. Noi affermiamo che dalla diseguaglianza linguistica consegue diseguaglianza nella comunicazione a tutti livelli, compreso il livello internazionale. Noi siamo un movimento per la comunicazione democratica.
Diritti Linguistici. La disparità di potere fra le lingue è alla base di una continua insicurezza linguistica o di una diretta oppressione linguistica per grande parte della popolazione mondiale. Nella comunità esperantista gli appartenenti a lingue maggiori e minori, ufficiali e non ufficiali, s’incontrano su un terreno neutrale, grazie alla volontà reciproca di realizzare un compromesso. Tale equilibrio tra diritti linguistici e responsabilità crea un precedente utile a sviluppare e valutare altre soluzioni per la diseguaglianza linguistica e per i conflitti generati dalle lingue. Noi affermiamo che le grandi differenze di potere tra le lingue minano le garanzie, espresse in tanti documenti internazionali, di parità di trattamento senza discriminazioni su base linguistica. Noi siamo un movimento per i diritti linguistici.
Devo aggiungere qui che solo recentemente sono diventato consapevole del potenziale dell’esperanto: precedentemente, come la maggior parte dei sociolinguisti, non l’avevo mai preso sul serio. Oltre alle argomentazioni intellettuali qui riassunte, ho fatto l’esperienza di partecipare a due congressi “internazionali” nel 1996. Alla Conferenza sui Diritti Linguistici tenutasi a Hong Kong, l’inglese era praticamente l’unico mezzo di comunicazione. Un partecipante sudafricano espresse la sua sorpresa che coloro la cui competenza in inglese era meno che ideale, in particolare asiatici che avevano grandi difficoltà a esprimersi in inglese, accettassero i minori diritti comunicativi loro imposti dagli organizzatori del congresso. All’81° Congresso Mondiale dell’Associazione Universale Esperantista a Praga, poche settimane dopo, è stata un’esperienza stupefacente vedere diverse migliaia di partecipanti da tutto il mondo comunicare con sicurezza in una lingua internazionale condivisa, e fra essi numerosi asiatici che evidentemente non si trovavano in posizione di svantaggio.

Diritti linguistici nelle organizzazioni sovrastatali
Certe lingue godono di diritti preferenziali nelle organizzazioni internazionali, come l’ONU, le alleanze militari o commerciali, gli enti che controllano affari internazionali come le spedizioni e il traffico aereo, e le associazioni professionali. Queste organizzazioni tipicamente operano con una o più lingue ufficiali. In questo secolo si è imposta sempre di più la lingua inglese, accompagnando le rivoluzioni tecnologiche e delle comunicazioni, e riflettendo il potere politico, economico e militare. Mentre le gerarchie linguistiche nei contesti postcoloniali sono state sottoposte a così tante analisi, le politiche linguistiche internazionali, nel senso del funzionamento delle lingue nelle organizzazioni internazionali, sono “scarsamente studiate e scarsamente comprese” (Tonkin 1996, 9; si veda anche Coulmas 1996; Fettes, 1996).[13]
Gli studi del sistema linguistico dell’ONU, opera di Tonkin (1996) e Fettes (1996), indicano che il regime linguistico riflette il potere politico piuttosto che un qualsiasi principio di equità (per esempio le lingue con più parlanti, oppure una selezione rappresentativa dell’ecologia linguistica globale) o di efficienza. Così quattro lingue, tutte di origine europea (inglese, francese, russo e spagnolo), furono accettate come lingue ufficiali dell’ONU nel 1945, e da allora l’arabo (dopo la crisi del petrolio del 1973) e il cinese (di primaria importanza demografica e geopolitica) hanno acquisito un peso sufficiente ad assicurare la loro aggiunta.
In teoria alle Nazioni Unite ci sono sei lingue ufficiali con uguali diritti, e un’enorme quantità di documentazione è prodotto in queste lingue da un costoso servizio di traduzione. In pratica, l’inglese è di fatto la lingua di lavoro dominante, e ciò è accettato all’ONU. I paesi di lingua francese hanno espresso insoddisfazione, ma senza risultati, e la loro protesta ha poco a che fare con l’equità o con i diritti delle lingue diverse dal francese.[14] Ci sono forti resistenze alla riforma del sistema, perché esso riflette un insieme di compromessi politici, l’attaccamento al sistema di chi lo fa funzionare, e la riluttanza a considerare delle alternative.
Le alternative possibili suggerite da Tonkin (1996, 22-24) potrebbero comportare una più esplicita accettazione dell’uso di una sola lingua, sia essa l’inglese oppure l’esperanto, oppure una maggiore enfasi dell’apprendimento delle lingue e del multilinguismo, oppure ancora un sistema in cui i servizi linguistici potrebbero essere disponibili su richiesta (e a pagamento). Al momento non ci sono indizi di una volontà di modificare il sistema, nonostante il fatto che l’ONU sta cercando di tagliare i costi e ben un quarto delle spese dell’ONU sia destinate ai servizi di interpretariato e traduzione (Fettes 1996, 119). Il sistema è inefficiente perché molti parlanti non sono fluenti e comprensibili in alcuna delle lingue ufficiali; perché ci sono problemi logistici nel fornire interpretariato nelle lingue ufficiali designate; e a causa degli sprechi, dovuti al fatto che i testi vengono tradotti in tutte le lingue ufficiali senza che di tutte le traduzioni si faccia un uso estensivo. Come fa notare un ex interprete nel sistema ONU, è paradossale che si debbano stanziare fondi ingenti per questi scopi, quando le attività primarie dell’ONU come il mantenimento della pace, la salute e la promozione dei diritti umani non hanno risorse sufficienti (Piron 1994).
Sembra di dover concludere che la prassi attuale di assegnare dei diritti a certe lingue in effetti priva i parlanti delle altre lingue di un equo accesso al sistema. Inoltre, selezionare un certo numero di lingue non significa che non ci sia una gerarchia fra le lingue selezionate – al contrario.
Nell’Unione Europea, le politiche linguistiche sono una tale patata bollente che poche iniziative ad alto livello sono state prese di comune accordo. Le politiche linguistiche non hanno un alto profilo. Come fa notare il direttore di un numero della International Political Science Review su “Il sistema linguistico mondiale emergente”: “Il tema delle lingue è stato il grande tabù dell’integrazione europea. Si è parlato tanto di quote latte e di montagne di burro, di moneta unica, di liberalizzazione dei movimenti per i cittadini dell’unione e di restringere l’accesso degli altri, ma la lingua in cui questi temi venivano trattati non è mai diventata essa stessa un tema” (de Swaan, 1993, 244).
Ci sono stati solo pochi studi sistematici delle politiche linguistiche nell’UE, e nessuno con una elaborata struttura multidisciplinare. Ciò che è attualmente disponibile è frammentario, e in gran parte impressionistico. I libri di scienze politiche sull’integrazione europea trascurano il tema delle lingue (es. Richardson, 1996). Gli studi delle politiche linguistiche dell’UE contengono analisi delle norme in materia e ricerche empiriche sull’uso di particolari lingue e sull’atteggiamento verso l’uso della lingua. I lavori pionieristici sono di un canadese francofono (Labrie 1993), un tedesco (Schlossmacher 1996) e un norvegese (Simonsen 1996), e sicuramente non è casuale che i primi studi siano opere di ricercatori provenienti da stati che sentono minacciate le loro lingue, in tutti i casi da parte dell’avanzata dell’inglese. I libri sono rispettivamente in francese, tedesco e norvegese, il che potrebbe limitare la loro diffusione. Tuttavia molti dei temi sono stati trattati anche in inglese (vedi l’annuario Sociolinguistica; Phillipson & Skutnabb-Kangas, 1997).
In teoria le politiche linguistiche sono, come la cultura, competenza di ogni stato membro, ma i processi di globalizzazione ed europeizzazione e l’intensità dei collegamenti in così tanti campi attraverso i confini nazionali, molti dei quali incoraggiati da misure adottate nell’UE, rendono l’autonomia nazionale in qualche modo illusoria. Per le istituzioni europee la legislazione linguistica più significativa è quella del 1958 che garantisce alle quattro lingue dominanti degli stati fondatori (francese, italiano, olandese e tedesco) uguali diritti come lingue ufficiali e di lavoro. Quando nuovi stati si sono inseriti, le loro lingue sono state aggiunte (danese e inglese nel 1972, greco, portoghese e spagnolo un decennio dopo, finlandese e svedese dal 1994). Il preambolo alla decisione iniziale spiega che le lingue ufficiali in tutto il territorio di uno stato possono diventare lingue ufficiali dell’UE. Questo esclude lingue regionali come il catalano in Spagna, anche se hanno più parlanti di alcune delle lingue ufficiali.
L’appartenenza all’Unione Europea comporta una condivisione di sovranità con gli altri stati membri. C’è quindi un manifesto bisogno di documenti scritti che siano il risultato delle negoziazioni fra gli stati membri (per esempio nel Consiglio dei Ministri) da diffondere nella lingua dominante di ciascuno stato, perché i testi (trattati, regolamenti ecc.) con la forza della legge dell’UE scavalcano la legge nazionale. C’è quindi una chiara esigenza di testi il più possibile equivalenti in 11 lingue ufficiali.
L’attuale sistema di interpretariato in 11 lingue ufficiali (11 x 10 possibili combinazioni) è assai ingombrante, e spesso si usa una lingua ponte, per esempio dal danese al greco tramite il francese o l’inglese. In principio ognuna delle 11 lingue ha lo stesso diritto di essere usata come lingua di lavoro,; in pratica i parlanti delle lingue “piccole” spesso rinunciano ai loro diritti e lavorano in una delle lingue “grandi”. Spesso le bozze dei testi sono disponibili solo in francese o inglese.
Probabilmente l’uguaglianza delle lingue ufficiali è sempre stata fittizia. Nei primi anni il francese era la lingua dominante della commissione europea a Bruxelles, e in certi campi lo è ancora. I tedeschi lo accettarono, anche se i leader politici ed economici periodicamente lamentano che gli interessi tedeschi subiscono le conseguenze del fatto che la Germania di fatto non goda degli stessi diritti.
I programmi espliciti in tema di politiche linguistiche sono per la maggior parte minimalistici, puntando a qualche forma di uguaglianza fra le 11 lingue ufficiali. I programmi dell’UE per promuovere la mobilità degli studenti puntano a rafforzare la competenza nelle lingue straniere negli stati membri e a formare una identità “europea”. In teoria, gli architetti dell’europeizzazione proclamano che la diversità linguistica e culturale dev’essere mantenuta. Tuttavia la realtà è più complessa e coinvolge sia l’uso di tutte le lingue nazionali al livello sovranazionale, sia lo stato e i diritti delle lingue minori all’interno di ogni stato. Inoltre l’inglese si sta scontrando con le altra lingue nazionali. Nelle istituzioni europee l’inglese si sta espandendo a spese delle altre potenziali linguae francae, in particolare francese e tedesco. Le lingue meno “internazionali” degli altri stati membri hanno pochi diritti nella pratica. In altre parole, c’è una tacita accettazione di una gerarchia delle lingue dell’UE.
E’ difficile prevedere come si evolveranno le politiche linguistiche dell’UE. Molte domande sono ancora senza risposta: l’UE si sta muovendo verso la diglossia, con l’inglese come seconda lingua per le élite (esclusi i britannici e gli irlandesi che resteranno prevalentemente monolingui)? Oppure si potrà stabilire un grado maggiore di reciproco multilinguismo? Le istituzioni europee continueranno con un ingombrante sistema di traduzioni e interpretariato, oppure ripenseranno le loro politiche in tema di lingue di lavoro e di bozze dei testi? E’ probabile, visto che l’UE sta per espandersi accogliendo nuovi membri. Gli attuali programmi che sovvenzionano la mobilità degli studenti (Erasmus, Socrates ecc.) stanno raggiungendo il loro obiettivo dichiarato di rafforzare le lingue europee meno usate, oppure stanno di fatto spingendo l’inglese?[15] C’è un dibattito informato sulla fattibilità di alternative come l’esperanto? Quale entità esercita la maggiore influenza sulle politiche linguistiche: le élite nazionali o sovranazionali, le categorie professionali, o la mitologia generata nel mondo della comunicazione e del dibattito politico? E’ giusto supporre che la questi temi politicamente scottanti, accoppiati con la fragilità dell’infrastruttura nazionale e sovranazionale che dovrebbe garantire un dibattito pubblico informato, faranno sì che le forze del mercato sosterranno sempre più l’inglese? E se questo accadrà, sarà necessariamente a spese delle altre lingue (e dei loro parlanti)?
C’è molta carne al fuoco, a molti livelli (individuale, regionale, sociale, globale) e in molti campi (culturale, economico, politico, ecc.), sia nell’ecologia linguistica locale sia a livello macroscopico (europeo).
Studi empirici indicano che sono soltanto il francese e l’inglese a funzionare effettivamente come lingue ufficiali e di lavoro negli affari interni dell’UE (Schlossmacher 1996, dati raccolti nel 1992).Gli europei del nord tendono a usare l’inglese, quelli del sud il francese. L’inglese predomina come mezzo di comunicazione con l’esterno (per esempio con i paesi dell’EFTA, e perfino con i paesi postcomunisti, dove il tedesco aveva una forte tradizione). Lo studio più recente di Quell (1997) conferma il quadro. La conoscenza del francese e dell’inglese è condizione necessaria per un’adeguata partecipazione al processo di decisione politica, anche nel Parlamento Europeo, dove i servizi di interpretariato sono più ampiamente disponibili, almeno nelle sessioni plenarie.
Alla domanda se un nuovo sistema di lingue di lavoro fosse necessario, gran parte dei burocrati impiegati all’UE risponde di sì (78%), mentre fra i parlamentari la percentuale è più bassa (41%, Schlossmacher 1996, 98). Tipicamente sono i gruppi linguistici minori (per esempio danese e portoghese) che non vogliono cambiare, presumibilmente a causa del rischio che la loro lingua venga ancora più marginalizzata di quanto accade ora.
Lo stesso studio mostra anche un’ampia percentuale a favore del tedesco usato come lingua con priorità e status massimi, piuttosto che un sistema con solo l’inglese, o solo l’inglese e il francese, come lingue di lavoro (ibid. 103). Al campione di Quell è stato anche chiesto se una possibile soluzione formalizzata del problema delle lingue di lavoro nell’UE dovrebbe essere un sistema con una, due o tre lingue, e se sì, a quali delle 11 lingue dovrebbe essere garantito questo status. I risultati mostrano una marcata preferenza per un sistema bilingue (inglese e francese) oppure trilingue (inglese, francese e tedesco) piuttosto che monolingue. Essi suggeriscono anche che ci sia un sostegno maggiore ad un sistema solo inglese fra gli utenti dell’inglese come seconda lingua che fra i madrelingua.[16]
Lo studio di Schlossmacher rivela anche un ampia gamma di vedute sul problema se i nuovi stati membri dovrebbero necessariamente avere gli stessi diritti linguistici di cui godono gli stati membri attuali. Di nuovo, sembrano essere di più i parlamentari che i burocrati a pensare che i nuovi stati o le nuove lingue dovrebbero avere gli stessi diritti.[17] E’ più che probabile che quando si aggiungeranno dei nuovi stati, si dovranno prendere delle decisioni di politica linguistica, se non altro perché le lingue aggiuntive complicheranno immensamente la logistica della traduzione simultanea. Questo significa che nell’UE del futuro, agli incontri dei capi di stato, burocrati di alto e medio livello, politici ed esperti, non ci sarà alcun diritto di lavorare nella propria lingua madre? Una volta ammessi nel club europeo (un club le cui regole hanno valore di legge in ogni stato membro), i parlanti del ceco, dell’estone, dell’ungherese e del polacco si esprimeranno solo in francese e tedesco? Oggi le risposte a queste domande sono solo ipotesi, ma sollevano una questione fondamentale: l’Unione Europea è un’aggregazione democratica di stati membri con uguali diritti?
Dato che la politica attuale è una politica dell’inazione, “regolazione implicita… l’unica lingua che ci guadagna è l’inglese. Considerato il fatto che la maggior parte della gente non vuole vedere l’inglese guadagnare ulteriore terreno, è curioso che esso si stia tuttavia affermando come la lingua dominante della burocrazia europea ” (Quell 1997, 71).
Durante lo scorso quarto di secolo l’inglese ha acquisito uno status come lingua sovranazionale nell’UE comparabile alla sua posizione nell’ONU e in molti stati postcoloniali, e riflettendo la sua posizione come lingua dell’Americanizzazione e della McDonaldizzazione. Questo esercita sull’ecologia linguistica dell’UE degli effetti che probabilmente diventeranno più evidenti nei prossimi decenni. L’inglese ha come lingua internazionale una posizione egemonica che la legge internazionale, inclusa la legge sui diritti umani, non ha modo di contrastare, nonostante le affermazioni dei governanti sull’inaccettabilità della discriminazione linguistica (per i limiti di queste affermazioni vedi Skutnabb-Kangas & Phillipson, 1994b).

Egemonia Linguistica Internazionale
L’egemonia linguistica inglese si afferma in molti modi. Alcuni di essi riflettono la forza economica. La diffusione dell’inglese dipende meno dalla forza militare (anche se il “mantenimento della pace” in Bosnia rafforza e diversifica l’Inglese) che dalle pressioni commerciali, non ultime quelle delle compagnie internazionali e delle organizzazioni globali e regionali come l’UE.
Chiaramente le gerarchie linguistiche al livello internazionale non sono direttamente correlate con la forza demografica o economica delle nazioni. Il tedesco ha più parlanti madrelingua di ogni altro gruppo linguistico nell’UE, il più grande mercato interno e l’economia più forte, e funziona in una certa misura a livello extranazionale, ma ci sono poche ragioni di pensare che il tedesco potrà competere con l’inglese.
L’inglese beneficia anche dell’apprendimento delle lingue straniere, che conferma la gerarchia linguistica internazionale. Per poter competere nel mercato globale, gli stati le cui lingue sono linguae francae concorrenti – Francia, Germania e Spagna – investono pesantemente nell’insegnamento dell’inglese nell’educazione pubblica, anche se questa lingua è considerata una minaccia per i valori culturali e linguistici locali.[18]
Anche la collaborazione scientifica internazionale è sempre più dominata dall’inglese. Le aree periferiche sono vulnerabili ai progetti congiunti sotto il segno dell’imperialismo scientifico e linguistico:[19] nel dibattito scientifico ci sono rapporti asimmetrici che lo status dell’inglese consolida, e una gerarchia di paradigmi di ricerca che è spesso legittimato e assimilato senza discutere.
La lingua dominante beneficia dell’immagine creata dalle pubblicità delle compagnie transnazionali e dalle connotazioni dell’inglese col successo e l’edonismo. Questi simboli sono rafforzati da un’ideologia che glorifica la lingua dominante e stigmatizza le altre, mentre questa gerarchia viene razionalizzata e accettata come normale e naturale, piuttosto che come un’espressione di valori ed interessi egemonici.[20]
La diffusione dell’inglese è chiaramente visibile nelle politiche linguistiche postcoloniali che ignorano l’ecologia delle lingue locali. Gli studi accademici occidentali della sociologia delle lingue spesso riflettono una relazione asimmetrica, come indica un libro di un nordamericano sulle politiche linguistiche: “Questo è un tipico esempio di collaborazione indiana e occidentale: superficiale e condiscendente… Ignorando le ricerche pubblicate nelle lingue regionali indiane sui problemi linguistici dell’India, perdiamo delle osservazioni vitali. La lingua inglese ci mette a disposizione solo una dimensione, una prospettiva e una finestra” (Kachru 1996, 138, 140).
Globalmente queste tendenze, e molte altre che sono parte integrante della McDonaldizzazione, hanno portato a un desiderio da parte sia delle élite sia dei gruppi marginali di conoscere l’inglese, per l’ovvia ragione che l’inglese è visto come qualcosa che apre le porte. Il richiamo dell’inglese non dovrebbe oscurare il fatto che in Africa il 90% della popolazione parla solo lingue africane. Allo stesso modo in India si stima che i parlanti dell’inglese siano il 3 – 5%. Se i cittadini di tutti i paesi del modo devono contribuire alla soluzione dei problemi locali, usando l’ambiente locale per scopi culturali, economici e politici localmente adeguati, le lingue locali devono essere coinvolte. Le politiche linguistiche devono riconciliare queste dimensioni di ecologia linguistica con la pressione della globalizzazione e della sovranazionalizzazione che stanno spingendo in avanti l’inglese. Le politiche linguistiche devono essere rese esplicite e devono abbracciare eque condizioni per tutti i popoli e tutte le lingue. Le leggi internazionali sui diritti umani devono essere estese fino a controllare l’invasione delle lingue internazionali dominanti.

NOTE
[1] Un documento politico fondamentale, “La diffusione della cultura inglese fuori dall’Inghilterra. Un problema della ricostruzione dopo la guerra” (Routh, 1941), fu prodotto da un consulente del British Council, un ente fondato negli anni trenta per promuovere l’inglese e per contrastare l’efficace promozione delle proprie lingue da parte dei governi fascisti. Era un documento ciclostilato per la creazione della professione globale di insegnante di inglese che venne realizzata nei tardi anni cinquanta e da allora ha conosciuto una enorme espansione.
Gli americani hanno riversato fiumi di denaro nei sistemi scolastici dei paesi del “Terzo Mondo”, finanziando in particolare l’inglese come seconda lingua: “… la spesa di somme ingenti da parte del governo e di fondazioni private nel periodo 1950-1970, forse le più alte mai pagate nella storia per la propagazione di una lingua” (Troike, direttore del Centro per la Linguistica Applicata, Washington, DC, 1977).

[2] Queste idee sulla lingua inglese sono legate alla sua forma (intesa come amalgama di numerose lingue, prima di tutto europee) e al suo ruolo come mezzo di diffusione della cristianità, della letteratura, del benessere, della tecnologia, della scienza, del progresso, ecc. “Il dissenso dalle idee dell’impero è raro; anche oggi” (Bailey, 1991, p. 116). Una lunga e tuttora vivace tradizione pretende di “dimostrare la superiorità anglofona in tutti i campi della ricerca umana. Molti hanno giustificato anche le forme più perniciose di ingiustizia. Pochi resistono a una critica rigorosa e spassionata” (ibid. 287).

[3] Malcom Rifkind, allora Segretario agli Esteri Britannico: “La Gran Bretagna è una potenza globale con interessi in tutto il mondo grazie al Commonwealth, alle relazioni atlantiche e all’uso crescente della lingua inglese.

[4] Il progetto “English 2000” del British Council, lanciato nel 1995, riporta nei suoi materiali informativi che esso punta a “sfruttare la posizione dell’inglese per favorire gli interessi britannici e a mantenere ed espandere il ruolo dell’inglese come la lingua mondiale nel prossimo secolo… Parlare l’inglese apre le persone ai successi culturali, ai valori sociali e agli obiettivi economici della Gran Bretagna”.

[5] The Sunday Times, Londra, 10.7.1994: “L’unica via di salvezza per la lingua francese è insegnare l’inglese il più vigorosamente possibile come seconda lingua in tutte le sue scuole… Solo quando i francesi riconosceranno il dominio dell’inglese angloamericano come la lingua universale in un mondo che si restringe sempre di più, potranno efficacemente difendere la specificità della loro cultura… La Gran Bretagna deve spingere ancora per la diffusione dell’inglese e dei valori britannici che gli stanno dietro.

[6] La recente ondata di libri sulla globalizzazione e l’inglese può essere classificata, a grandi linee, in:
regionali (per es. Linguistic Ecology. Language change and linguistic imperialism in the Pacific region. Mühlhäusler, Routledge; South Asian English, ed. Baumgardner, Illinois UP).
comparativi (Post-imperial English: Status Change in former British and American colonies, 1940-1990.ed. Fishman, Conrad & Rubal-Lopez, Moputon de Gruyter; Language Policies in English-dominant countries, Herriman/Bournaby, Multilingual Matters) trionfalistici (English as a global language, Crystal, Cambridge UP) analitici (The politics of English as an international language, Pennycook, Longman; Problematizing English in India, Agnihotra & Khanna, Sage; Linguistic Imperialism, Phillipson, Oxford)
Radicali-critici (The otherness of English. India’s auntie tongue syndrome, Dasgupta, Sage; De-hegemonizing language standards. Learning from (post)colonial Englishes about ‘English’, Parakrama, Macmillan) predittivi (The future of English, Graddol, British Council).

[7] Dal riassunto dell’articolo presentato dal Presidente dell’Associazione Britannica per l’Educazione Internazionale e Comparativa, Sir Christopher Ball, alla Terza Conferenza di Oxford sull’Educazione e lo Sviluppo, 1995.
[8] Gli ambiti dell’apprendimento sono:
(i) imparare a imparare
(ii) la lingua mondiale
(iii) la lingua madre (se diversa da ii)
(iv) matematica
(v) alfabetismo culturale
(vi) competenze sociali
(vii) religione, etica e valori

[9] Il Linguicismo è definito come “ideologie, strutture e pratiche usate per legittimare, effettuare e riprodurre una ineguale divisione del potere e delle risorse (materiali e immateriali) fra gruppi definiti in base alla lingua” (Skutnabb-Kangas 1988)

[10] Lo stesso Zamenhof cita Ovidio a proposito di chi rifiuta l’esperanto senza conoscerne le potenzialità o la realtà: “Ignoti nulla cupido” = Non si desidera ciò che si ignora (citato in Centassi & Masson 1995)

[11] Nell’autunno del 1915 Zamenhof scrisse un articolo intitolato “Dopo la Grande Guerra – un appello ai diplomatici”, una sorta di testamento politico. Egli proponeva quattro principi (Centassi & Masson 1995, 329-331):
· Tutti i paesi appartengono ai loro abitanti e a coloro che in essi si sono stabiliti (naturalizzati). Nessun popolo dovrebbe, all’interno di un paese, esercitare diritti o avere doveri superiori o inferiori a quelli degli altri popoli.
· Ognuno ha il diritto inalienabile di scegliere che lingua usare e di praticare qualunque religione egli preferisca.
· Il governo di ogni paese è responsabile per tutte le ingiustizie commesse (da esso / in suo nome) davanti a un Tribunale permanente europeo costituito con il consenso di tutti i paesi europei.
· Nessun paese e nessuna regione dovrebbero prendere il nome da un popolo; dovrebbero invece avere un nome che sia geograficamente neutrale e liberamente accettato da tutti gli altri popoli.

[12] “Das Kommunikations- und Sprachenproblem in der Europäischen Gemeinschaft – in wie weit könnte eine Plansprache zu seiner Lösung beitragen?” Parlamento Europeo, 29 settembre 1993, organizzata dalla Fondazione Hans Seidel. Un seconda audizione è prevista dal Gruppo di Lavoro sui Problemi Linguistici dell’Unione Europea. Dettagli possono essere ottenuti dalla Universala Esperanto-Asocio, Nieuwe Binnenweg 176, 3015 BJ Rotterdam, Paesi Bassi.

[13] Il Centro per la Ricerca e la Documentazione sui Problemi Linguistici Mondiali, con sede all’Università di Hartford (USA) e associato con la rivista Language Problems and Language Planning, ha organizzato una serie di conferenze all’ONU sulle politiche linguistiche (per i riferimenti si veda Tonkin, 1996).

[14] Si veda la risoluzione dell’Assemblea Generale del 2 novembre 1995 riportata in Fettes, 1996, 130

[15] Per decenni il Consiglio d’Europa ha sostenuto l’apprendimento di due lingue straniere. La commissione europea nel suo Libro Bianco sull’Educazione e la Formazione (COM(95) 590 del 29.11.1995) raccomanda l’apprendimento di almeno due lingue straniere della Comunità da parte di tutti i giovani, e diverse misure per rafforzare l’apprendimento delle lingue straniere. Molti scolari in Europa lo stanno già facendo, e molti governi dell’UE, escluso quello britannico, sostengono il principio dell’apprendimento di due lingue straniere.

[16] Quantunque meticoloso e cauto nella sua analisi, Quell tende alla visione secondo cui i parlanti non madrelingua sono “agenti ideali del cambiamento, perché non solo sono altamente motivati, ma anche perché, sostenendo una lingua alla quale non sono legati in un senso primario e culturale, difficilmente li si percepisce come fautori di una politica per ragioni egoistiche e nazionalistiche” (Quell, 1997, 70).

Anche se questa può essere una giusta conclusione di questa investigazione, la sua applicazione a un contesto più ampio può ridurne la validità. La ricerca di Schlossmacher indica che i burocrati dell’UE sono molto meno convinti dei parlamentari nel sostenere il proprio diritto di usare la propria lingua madre nelle istituzioni europee.

[17] In qualche misura questo “risultato” potrebbe essere un prodotto del questionario stesso, visto che gli intervistati inevitabilmente dovevano interpretare delle affermazioni che, per quanto accuratamente espresse, possono essere comprese in vari modi. E “Amtssprache” è un esatto equivalente di “lingua ufficiale”?

[18] Per i dettagli dei cambiamenti nell’insegnamento delle lingue nei paesi dell’UE durante il passato mezzo secolo, e analisi delle implicazioni della scelta della lingua nella comunicazione interpersonale, vedi Labrie & Quell, 1997

[19] Ci sono vivaci dibattiti nelle riviste ungheresi di scienze sociali sull’ineguale relazione fra i ricercatori nordamericani e i loro “partner” ungheresi: vedi il numero speciale di replika “Colonizzazione o collaborazione? L’Europa dell’est e le scienze sociali occidentali”, 1996. Sono grato a Miklós Kontra per avere attirato la mia attenzione su questo fatto.

[20] Un esempio recente di questo fatto: un alto funzionario del British Council considera l’attuale dominio dell’inglese paragonabile all’acqua che scende a vale e al sole che sorge a est, e che data questa realtà sociale, è “legittimo e inevitabile che i paesi madrelingua inglesi cercheranno di sfruttare questa realtà per gli interessi nazionali…” (Scaton, 1997, 381).

 

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