L’Europa che non pensa più

Perché ha smesso di rincorrere l’idea di comunità

Può un organismo politico vivere senza pensare a un proprio Fine? Senza concepire la propria struttura in qualche modo come esemplare, pur nel realistico riconoscimento dei limiti della propria potenza? Coloro che, dopo il suicidio d’Europa e la sua detronizzazione nella prima metà del Novecento, hanno voluto e avviato il processo per farne una comunità, avrebbero certamente risposto no, non è possibile. Oggi la stessa domanda sembra scomparsa; l’interrogativo non inquieta più nessuno della leadership europea. Ogni problema è ridotto alla logica dello scambio e delle compatibilità economico-finanziarie. Credo che tutti, anche “grazie” alla pandemia, abbiano compreso come lo “spazio europeo” segnato dal mercato e dalla moneta, sia conditio sine qua non per sopravvivere nella competizione globale. Forse la stagione del nazionalismo populista è finita. Ma qui il discorso si arresta. A che cosa è chiamata l’Europa? Quale ne dovrebbe essere il significato nel mondo contemporaneo? Tutte queste suonano ormai domande astratte, prediche inutili.

Lasciamo le “missioni” a papa Francesco, ripete il miserabile realismo dei mercati.

Non fu così per un brevissimo periodo a cavallo della caduta del Muro e della fine della “terza guerra mondiale” catastroficamente perduta dall’Urss. Vi fu chi comprese che la fine del tragico Novecento offriva all’Europa una grande e irripetibile occasione per affermare una propria nuova, originale “centralità”. Anche riscoprendo una sua “storia segreta”, voci inascoltate della sua tradizione.

La costruzione dell’unità politica delle nazioni europee avrebbe potuto costituire un polo di riferimento pratico e culturale per il mondo che affrontava il salto d’epoca. E la proposta europea a questo mondo poteva essere una soltanto: ecco, noi usciamo dall’antica forma-Stato del Moderno, dai suoi assetti gerarchici e centralistici; noi riteniamo che il potere possa davvero essere partecipato, e che tanto meglio funzioni un organismo politico quanto più ricca al suo interno è la vita autonoma di corpi intermedi, di partiti, di sindacati; noi riteniamo che la diversità di lingue, tradizioni, religioni non contraddica affatto la volontà di federarci insieme, ma, al contrario, ne costituisca lo stesso presupposto. Europa è un nome plurale. Europa non cerca l’unità dell’Uno, ma l’Uno che sono (Unum sumus!). E questa soltanto ci sembra essere la cultura politica capace di governare un mondo policentrico, la cultura politica che contraddice l’insorgere di nuove volontà egemoniche imperiali. Secondo questo suo interno assetto, mostrandosi in questa forma, l’Europa avrebbe dovuto svolgere il proprio ruolo internazionale, intervenire nelle crisi destinate ad aprirsi per il venir meno degli equilibri della guerra fredda.

La sua autorevolezza internazionale poteva derivare soltanto dalla forza della sua proposta politica, non certo da riacquisiti “imperi” militari o economici. Tutto ciò fu qua e là pensato, e tutto fu contraddetto dall’azione seguente. Nel corso del ventennio successivo “l`arcipelago” europeo venne interrato da interventi che erano di volta in volta nient’altro che il prodotto di faticosi compromessi tra Stati “sovranisti”, per i quali i principi fondamentali di ogni concepibile comunità, quelli di solidarietà e cooperazione, di amicizia, avrebbero detto i nostri Antichi, non erano che occasioni per qualche sfoggio retorico. Non essendo prevalsa una nuova visione dell’Europa al suo interno, non poteva di conseguenza affermarsi alcun ruolo dell’Europa nelle grandi crisi che abbiamo attraversato e stiamo vivendo. Che cosa è mancato? È mancato il federatore. Nel non cogliere questo aspetto i federalisti europei hanno peccato di utopismo.

L’unità politica non poteva essere perseguita se fosse mancata la potenza europea chiamata a guidarne il processo. Che sentisse, cioè, come propria autentica vocazione la realizzazione di quella unità. A un Fine di tale valore non si può tendere attraverso compromessi tra interessi di Stato. Ma il federatore, dopo la caduta del Muro e l’unificazione tedesca, non poteva essere che la Germania. Questo è il colossale paradosso del destino europeo! Lo Stato attore fondamentale, protagonista assoluto, responsabile primo della disfatta dell’Europa era diventato l’unico che potesse guidarne la riaffermazione politica, e secondo una forma, quella federale, che rovesciava in toto le concezioni del potere che lo avevano portato a trascinare il mondo nella più immane delle tragedie. Era uno straordinario racconto, un autentico mito in cui la nuova Germania avrebbe potuto rappresentarsi. Occorreva certo un’audacia politica eccezionale, superare antiche paure, resistenze durissime dell’opinione pubblica. Forse in alcuni leader, forse persino nella Merkel per brevi istanti, l’idea della grande occasione è venuta. Ma i fatti l`hanno puntualmente smentita. Ed è stata Grecia, sono state le tragedie dell’immigrazione. Sul pilastro della stabilità la Germania ha legato l’Europa e ha legato se stessa, l’affermazione possibile, cioè, di una sua autentica auctoritas europea e internazionale.

Il momento in cui poteva avere ancora un significato pratico pensare a una destinazione europea “in grande stile”, scomodando magari – con la Germania federatore – i Lessing, gli Herder, i Goethe, è tramontato per sempre. Dobbiamo sapere entrare responsabilmente nel tempo delle “serene rinunce”. Un’Europa potenza politico-culturale, un’Europa che sa trasformare in norme vincolanti, in positivo diritto al proprio interno gli appelli ai “diritti umani”, alla “difesa dell’ambiente”, un`Europa che mostra come si possano vincere ingiustizie e disuguaglianze intollerabili, lasciamo che viva in noi come “idea regolativi”. Anche di dover-essere vive il povero mortale. Ma tanto più fermamente, allora, esigiamo atti e decisioni per superare i blocchi che le procedure comunitarie comportano, per sostenere con tutti i mezzi necessari chi da questa crisi è stato più duramente colpito, perché non si dilapidi anche quel patrimonio di solidarietà che è contenuto nelle vecchie politiche di Welfare. Difendiamo la nostra unità economica, eliminiamo quelle incredibili disparità in campo fiscale e sociale che la rendono debole. La crisi del covid pare che almeno questa esigenza l’abbia fatta intendere e che sulla sua prospettiva si stia bene o male procedendo. Su tutto il resto credo onesta una sola parola: rinunciamoci. Di ciò che è impossibile fare, meglio è tacere

Massimo Cacciari | La Repubblica | 11.9.2020

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