10/08/2004, Corriere della Sera, pag. 1
L'EUROPA CHE NON C'E'
di SERGIO ROMANO
Lo sgradevole battibecco fra maggioranza e minoranza che esplode dopo ogni sbarco di clandestini sulle coste italiane è irrilevante e provinciale. Dimostra semplicemente che esistono uomini politici e gruppi di opinione, nei due schieramenti, per cui ciò che maggiormente conta, in queste circostanze, non è la soluzione del problema, ma il calcolo elettorale e la voglia di creare imbarazzo all'avversarìo. Non resta che tapparsi le orecchie e cercare di capire perché le coste italiane siano divenute, ancora più di quelle di altri Paesi mediterranei, il «ventre molle» dell'Unione Europea.
Siamo a poche decine di miglia dall'Africa, vale a dire dal continente dove la demografia, la cattiva politica e una lunga sequenza di conflitti civili, dalla Liberia al Sudan, hanno creato un enorme serbatoio di potenziali emigranti. La grande criminalità si è accorta che esiste ormai un business. particolarmente interessante forse in un momento in cui il contrabbado delle sigarette potrebbe essere drasticamente diminuito dagli accordi fra l'Unione Europea e i giganti del tabacco contro il traffico illegale. E' un nuovo mercato degli schiavi, non troppo diverso da quello che suscitò l'indignazione europea nell'Ottocento e ispirò molte ìmprese coloniali.
I Paesi della costa settentrionale del continente, d'altro canto, non sembrano capaci di controllare i flussi dell'emigrazione clandestina. In alcuni casi sono pronti a chiudere un occhio per sbarazzarsi il più rapidamente possibile di ospiti sgraditi. In altri casi non hanno i mezzi per sorvegliare le loro frontiere meridionali e le coste. E non è escluso, infine, che vi siano circostanze in cui si servono del problema per meglio strappare qualche concessione ai Paesi europei più minacciati.
Ma gli sbarchi sulle nostre coste non sarebbero divenuti così frequenti se l'Italia non fosse membro dell'Unione Europea e non avesse firmato con alcuni dei suoi partner il Trattato di Schengen per la libera circolazione delle persone in una larga parte del continente. Il trattato è un coraggioso passo avanti sulla strada dell'unità europea, ma si è rivelato, all'atto pratico, una mezza misura. Ha creato una frontiera comune, ma non costringe i Paesi che l'hanno firmato a comportarsi coerentemente. Mi spiego meglio.
Chiunque sbarchi a Brindisi o a Siracusa può essere nei giorni seguenti a Berlino o a Parigi. Ma i Paesi di Schengen non hanno una legge comune sul diritto d'asilo, un codice europeo dell'immigrazione, una guardia costiera e una polizia di frontiera collettive. I loro confini esterni appartengono all'Unione, ma ogni Stato deve assicurarne la sorveglianza con i propri mezzi. E può addirittura capitargli, come è accaduto all'Italia qualche settimana fa, che l'organizzazione umanitaria di un Paese «fratello» depositi sulle sue coste un dolorante carico di carne umana.
La soluzione del problema, quindi, è anzitutto a Bruxelles. Un'Europa dell'immigrazione, dotata di leggi e strumenti comuni, sarebbe meglio organizzata e diplomaticamente più forte. Potrebbe ad esempio, come suggerisce il procuratore nazìonale antimafia Piero Luigi Vigna nella sua intervista di ieri al Corriere, chiedere energicamente alla Libia di accogliere sul suo territorio un corpo di polizia europea per il controllo delle coste e il rimpatrio dei clandestini. Il ministro degli Esteri libico ha detto a La Stampa che il suo Paese è la prima vittima del fenomeno. Se è così, perché dovrebbe respingere la mano tesa dell'Europa?