Le lingue del Papa

Un saluto a questo Papa che ha voluto accogliere, e mantenere nel tempo, la proposta di inserire la Lingua Internazionale Esperanto fra le oltre 60 lingue da lui adoperate in occasione della benedizione di Natale e Pasqua.
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Mentre si discute sulle conoscenze delle lingue straniere da parte dei cardinali papabili – problema non secondario per chi volesse seguire l’approccio anche mediatico di Papa Wojtyla – emerge il legame fortissimo che un Papa poliglotta come Giovanni Paolo II ha sempre mantenuto con la sua lingua materna nelle situazioni “private” e più intime: la scrittura del testamento, la ricerca di raccoglimento in un convento di padri polacchi, la scelta dei componenti della sua “famiglia” che l’ ha accompagnato negli ultimi momenti parlandogli dolcemente in polacco.
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I 115 cardinali, di 52 nazionalità, riuniti in conclave – dove la lingua esclusiva era il latino – hanno eletto il nuovo Papa, Benedetto XVI.
L’annuncio è stato dato in più lingue.
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Tutta in latino la prima omelia di Joseph Ratzinger, Papa Benedetto XVI.
Italiano, inglese, francese, tedesco – non lo spagnolo – le lingue usate da
Benedetto XVI° nel suo incontro con i giornalisti.
Nella prima udienza generale Benedetto XVI ha parlato anche in spagnolo e polacco oltre che in italiano, inglese, francese, tedesco, latino…
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PARLANDO IN TEDESCO
di Massimo Gramellini

Per giustificare il suo ritardo all’udienza con i fedeli giunti dalla Germania, Papa Ratzinger ha scherzato: “Scusate, vuol dire che mi sto già italianizzando”. Una battuta ammiccante, se rivolta in Italiano a degli italiani. Detta in Tedesco a una platea di tedeschi. , ha provocato una piccola fitta al cuore di chi l’ ha interpretata come un’involontaria canzonatura.
La sortita mostra con chiarezza i due fantasmi mediatici che Benedetto XVI deve sfidare all’inizio del suo pontificato. Il primo è una istintiva e reciproca diffidenza italo-germanica, retaggio di vicende storiche millenarie e caratterizzata da una zavorra di luoghi comuni, fra i quali la mancanza di puntualità non è di certo il più infamante. Il secondo è l’inevitabile macchina dei paragoni, che oggi indurrà qualcuno a ricordare come Giovanni Paolo II seppe blandire il popolo dell’Urbe fin dal giorno dell’elezione, definendo “nostra” la lingua italiana e avendo cura di non rivendicare subito davanti ai polacchi la propria nazionalità, mentre il suo successore ha detto ai tedeschi “Sono a Roma da 23 anni, ma resto bavarese”. Per indole Papa Ratzinger non cerca il consenso delle folle, ma è uomo talmente profondo e sensibile che lo otterrà lo stesso.
Ancora più intensamente – ci si conceda di dirlo – se continuerà a scrivere, e dunque a leggere, le parole che pronunzia con tanta ispirazione in pubblico. Perché quando è costretto dalle circostanze a improvvisare rischia, come tutti i timidi, di ottenere qualche indesiderato effetto collaterale.
(Da La Stampa, 26/4/2005).
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Benedetto XVI si è rivolto in francese al corpo diplomatico.
Domenica scorsa Papa Benedetto XVI ha rivolto ai fedeli spagnoli un appello nella loro lingua perché “rafforzino il messaggio di Cristo” e “resistano alle tendenze laiche”.
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Nuovo Stile

Da 62 lingue a 33, Ratzinger “taglia” gli auguri

di L. Acc.

Traduzioni Spariscono idiomi slavi e africani che erano usati da Wojtyla

Paolo VI 12, Giovanni Paolo II 62, Benedetto XVI 33: sono le lingue usate dai tre papi per augurare “buon Natale” nel 1976, nel 2004 e l’altro ieri. In queste cifre forse c’è un insegnamento: il papa tedesco è alla ricerca di una sua “misura”, che potrebbe collocarlo a metà strada, nelle uscite verso il mondo, tra il riserbo del papa bresciano e la tendenza a strafare del papa polacco. Le lingue usate da Paolo VI (1963–1978) oscillarono da un minimo di sei a un massimo di dodici. Era un abito stretto per il papa poliglotta venuto da Cracovia, che parte con 24 lingue nel Natale del 1979, balza a 33 l’anno seguente, è a 53 nel 1989 e si attesta su 62 negli ultimi tre anni.
C’era curiosità per come si sarebbe comportato Benedetto XVI: gareggiare con il predecessore, tornare alla sobrietà montiniana o azzardare una sua cifra. E questo ha fatto. Ha detto “buon Natale” in 33 lingue, lo stesso numero segnato da Giovanni Paolo II nel suo secondo Natale, ma c’è da giurare che su questa quota continuerà a muoversi nei prossimi anni, in modo da far risuonare le lingue delle principali comunità cattoliche e le lingue simbolo delle grandi culture.
A questo obiettivo Giovanni Paolo aveva aggiunto quello di non dimenticare i popoli che stavano vivendo qualche tragedia, o che veniva visitando. Si può immaginare che la stessa cifra mediana dei “saluti” in lingua, il papa tedesco la manterrà per i discorsi e i viaggi
Paragonando la lista delle lingue usate da papa Ratzinger a quella di papa Wojtyla del 1979, quando anche il papa polacco ne aveva pronunciate 33, salta agli occhi la gran quantità di lingue slave e dell’Europa orientale onorate dal papa polacco e non usate dal tedesco: sloveno, serbo, cieco, slovacco, bielorusso, lituano, lettone, ucraino e armeno. Negli anni Wojtyla aveva esteso il suo repertorio a lingue africane come il kirundi, il kinyarwanda, il malgascio; a lingue dell’India come l’hindi, il tamil e il malayalam e persino all’esperanto.
Un’ultima variante del nuovo papa rispetto al predecessore: questi metteva il polacco per ultimo, in modo da dedicare ai connazionali un saluto più lungo, mentre Ratzinger ha lasciato il tedesco nella sua posizione abituale, di quarta lingua del mondo cattolico, dopo l’inglese e prima dello spagnolo.
(Da Corriere della Sera, 27/12/2005).

34 commenti

  • Il Papa e il napoletano

    di Nicola Pezzella

    Papa Francesco: “Ma tu sei napoletana, ma parli bene l’italiano”.
    Durante un colloquio con una ragazza giapponese, ma nata e cresciuta a Napoli, il Papa si lascia andare ad una frase che per alcuni napoletani è stata una caduta di stile; per altri, invece, semplice ironia.
    Comunque qualche napoletano apprende la notizia con molta semplicità: già che Napoli sia stata nominata dal Papa è un bel regalo.
    Addirittura che il Papa conoscesse bene la storia di Napoli! Intendo cioè il fatto che la lingua napoletana (che non è un dialetto, ma una lingua riconosciuta dall’Unesco), è molto più antica della lingua italiana.
    È per tale motivo – anche se per qualcuno sarà strano – che i napoletani hanno difficoltà nel parlare la lingua italiana: il napoletano è la loro "lingua madre"…
    (Da agoravox.it, 21/8/2013).

  • Francesco e il latino

    "La Messa antica non si tocca", il Papa gesuita spiazza ancora tutti

    I vescovi pugliesi chiedono il ritiro del motu proprio di Ratzinger.
    Bergoglio dice no "servono cose nuove e antiche"

    di Matteo Matzuzzi,

    Chi pensava che con l’arrivo al Soglio di Pietro del gesuita sudamericano Jorge Mario Bergoglio la messa in latino nella sua forma extra-ordinaria fosse archiviata per sempre, aveva fatto male i conti. Il motu proprio ratzingeriano del 2007, il Summorum Pontificum, non si tocca, e il messale del 1962 di Giovanni XXIII (che poi è l’ultima versione di quello tridentino del Papa santo Pio V) è salvo. Quel rito con il celebrante rivolto verso Dio e non verso il popolo, con le balaustre a separare i banchi per i fedeli dal presbiterio, non è un’anticaglia, detrito da spedire in qualche museo a impolverarsi. E’ stato proprio il Pontefice regnante a dirlo, ricevendo qualche giorno fa nel Palazzo apostolico la delegazione dei vescovi pugliesi giunti a Roma in visita ad limina apostolorum, come fa tutto l’episcopato mondiale ogni cinque anni.
    Come ha scritto sul suo blog il vaticanista Sandro Magister, i vescovi pugliesi sono stati i più loquaci, con clero e giornalisti. La scorsa settimana, il capo della diocesi di Molfetta, Luigi Martella, ha raccontato come Francesco sia pronto a firmare entro l’anno l’enciclica sulla fede che Benedetto XVI starebbe portando a termine nella tranquillità del monastero Mater Ecclesiae, aggiungendo addirittura che Bergoglio ha già pensato alla sua seconda lettera pastorale, dedicata alla povertà e intitolata “Beati pauperes”. Dichiarazioni che hanno costretto la Santa Sede a smentire, rettificare e chiarire, con padre Federico Lombardi che invitava a pensare “a un’enciclica per volta”. Poi è toccato al vescovo di Conversano e Monopoli, Domenico Padovano, che al clero della sua diocesi ha raccontato come la priorità dei vescovi della regione del Tavoliere sia stata quella di spiegare al Papa che la messa in rito antico sta creando grandi divisioni all’interno della chiesa. Messaggio sottinteso: il Summorum Pontificum va cancellato, o quanto meno fortemente limitato. Ma Francesco ha detto no.
    E’ sempre monsignor Padovano a dirlo, spiegando che Francesco ha risposto loro di vigilare sugli estremismi di certi gruppi tradizionalisti, ma suggerendo altresì di far tesoro della tradizione e di creare i presupposti perché questa possa convivere con l’innovazione. A tal proposito, come scrive Magister, Bergoglio avrebbe pure raccontato le pressioni subite dopo l’elezione per avvicendare il Maestro delle cerimonie liturgiche, quel Guido Marini dipinto al Papa come un tradizionalista che andava rimandato a Genova, la città che nel 2007 lasciò a malincuore obbedendo alla volontà di Benedetto XVI che lo volle a Roma. Anche in questo caso, però, Francesco ha opposto il suo rifiuto a ogni cambiamento nell’ufficio delle cerimonie. E lo ha fatto “per fare tesoro della sua preparazione tradizionale”, consentendo al mite e poco protagonista Marini di “avvantaggiarsi della mia formazione più emancipata”.
    La differenza culturale c’è tutta, il gesuita che per tradizione ignaziana “nec rubricat nec cantat” si trova improvvisamente catapultato in una realtà in cui negli ultimi otto anni erano stati pazientemente e lentamente recuperati elementi liturgici abbandonati negli ultimi trenta-quarant’anni, giustificando così chi vedeva nel Concilio una rottura anche in campo liturgico. Il filo conduttore delle cerimonie benedettiane era riassumibile nella sintesi tra solennità e compostezza: il ritorno sull’altare dei sette alti candelabri e della croce centrale e gli avvisi a non applaudire ne sono un esempio. E poi il latino, lingua della chiesa, che veniva usato per le celebrazioni non più solo a Roma ma in ogni angolo del pianeta, Africa compresa. Non pochi, guardando il volto serio di Marini quella sera di marzo mentre Bergoglio appariva per la prima volta alla Loggia delle Benedizioni con la semplice talare bianca, senza mozzetta né stola, avevano previsto un avvicendamento imminente. Invece Francesco sa che Roma non è Buenos Aires, che fare il Papa richiede anche di mantenere un apparato simbolico ancorato nella storia e nella tradizione millenaria della chiesa cattolica.
    La continuità che non piace a tutti
    Un recupero, quello avvenuto negli anni di Benedetto XVI, che a molti non è piaciuto, anche dentro le Mura leonine. Monsignor Sergio Pagano, prefetto dell’Archivio segreto vaticano, diceva lo scorso 7 maggio a margine della presentazione della costituzione d’indizione del Concilio “Humanae salutis” che “quando oggi vedo in certi altari delle basiliche quei sette candelabri bronzei che sovrastano la croce mi viene da pensare che ancora poco è stato capito della costituzione sulla liturgia Sacrosanctum Concilium”. Ecco perché qualcuno, come il vescovo di Cerignola-Ascoli Satriano, monsignor Felice Di Molfetta – che da sempre considera la messa in forma extra-ordinaria incompatibile con il messale di Paolo VI, espressione ordinaria della lex orandi della chiesa cattolica di rito latino – qualche giorno fa ha fatto sapere ai fedeli della sua diocesi di essersi vivamente rallegrato con Francesco “per lo stile celebrativo che ha assunto, ispirato alla nobile semplicità sancita dal Concilio”.
    (Da Il Foglio, 28/5/2013).

  • Twitter: l’account in latino di Papa Francesco supera i 100 mila follower

    L’account @Papa Franciscus, sebbene lontano dagli oltre 2,5 milioni di follower in lingua inglese e dai 2,4 milioni in lingua spagnola, ha superato ormai il numero dei follower dell’account in lingua polacca (88 mila) e araba (60 mila).

    Alessandra Talarico

    INTERNET – Nel mondo dei nuovi media digitali, in cui l’inglese sembra essere ‘la’ lingua per eccellenza, ecco che il latino assurge a nuova giovinezza grazie all’account Twitter di Papa Francesco, che ha superato quota 100 mila follower (101.721 per la precisione).
    Un successo legato alla popolarità del Pontefice, che meglio dei suoi predecessori è entrato nello spirito delle piazze virtuali, oltre che di quelle ‘reali’, facendo resuscitare la lingua di Cicerone anche sui social network.
    La presenza del Pontefice sul web è stata inaugurata a dicembre 2012 dal Papa emerito Benedetto XVI con l’account @pontifex_it, seguito – a gennaio – da account in altre 7 lingue (inglese, tedesco, portoghese, spagnolo, francese, polacco e arabo). L’account in latino venne inaugurato un mese dopo.
    In totale, questi account totalizzano 6,4 milioni di follower: l’account @Papa Franciscus, sebbene lontano dagli oltre 2,5 milioni di follower che ricevono i tweet in lingua inglese e dai 2,4 milioni dell’account in lingua spagnola, ha superato ormai il numero dei follower dell’account in lingua polacca (88 mila) e araba (60 mila).
    Quello in italiano conta 747 mila follower; quello portoghese 333 mila; quello francese 134 mila e quello tedesco 106mila.
    In un’epoca in cui (e anche questo articolo lo dimostra) spesso e volentieri il nostro parlare di infarcisce di inglesismi, a volte inutili, il successo dell’account @Pontifex_ln dimostra che nessuna lingua può dirsi morta se riesce a suscitare ancora tanto seguito.
    Non dimentichiamo, infine, che la notizia delle ‘dimissioni’ del Papa emerito Benedetto XVI sono state annunciate da una giornalista Ansa che ha potuto ‘battere’ la concorrenza proprio perché conosceva il latino.
    (Da http://www.key4biz.it, 21/5/2013).

  • Poco latino nelle messe di Francesco: il vescovo di Roma parla italiano

    di Matteo Mattuzzi

    C’è sempre meno latino nelle celebrazioni di Papa Francesco. Basta dare un rapido sguardo ai libretti dei riti presieduti dal Pontefice argentino nel suo primo mese e mezzo di pontificato per accorgersene: dalle grandi messe sul sagrato di San Pietro al Rosario a Santa Maria Maggiore, a prevalere è quasi sempre l’italiano. Francesco è vescovo di Roma, l’ha detto lui stesso parlando per la prima volta dalla Loggia delle Benedizioni la sera del 13 marzo scorso. E, come fa ogni vescovo, nella sua diocesi usa la lingua locale. Non il latino.
    Così, niente saluti nei più svariati ed esotici idiomi il giorno di Pasqua (rompendo così una lunga e consolidata tradizione), né i tradizionali brevi messaggi nelle lingue più comuni della cattolicità al termine dell’Angelus o Regina Coeli domenicale. Un’inversione di tendenza chiara. Benedetto XVI aveva pazientemente (e lentamente) avviato un’opera di recupero di quella che dopotutto è ancora la lingua ufficiale della chiesa cattolica, sempre meno conosciuta anche tra i membri del clero. Ratzinger usava il latino non solo nelle occasioni più solenni e ufficiali, come l`omelia tenuta in Sistina con i cardinali elettori il giorno dopo l’elezione al Soglio pontificio, ma anche nei suoi viaggi internazionali. Sorprese non poco sentire il Papa esprimersi in latino in Benín e in Camerun, due delle sue tappe nel continente africano.
    Ci teneva così tanto, il teologo tedesco, che diede al mondo notizia della sua rinuncia al ministero petrino leggendo un breve testo in latino scritto personalmente con l’aiuto di pochi e fidati collaboratori. Qualche mese prima, a novembre, Benedetto XVI aveva istituito con un moto proprio la Pontificia Accademia di Latinità, affidandola a Ivano Dionigi, latinista di fama e attuale rettore dell’Università di Bologna. I motivi che avevano spinto Ratzinger a costituire quell’organo li spiegava proprio Dionigi in un’intervista ad Avvenire pubblicata a marzo: "C`è la consapevolezza che il latino nella storia è stato la lingua dell’imperium, dello studium e dell’ecclesia. Questa lingua ha in sé tre proprietà che trovano corrispondenza nelle caratteristiche della fede: l’eredità, l’universalità e l’immutabilità. E’ la lingua dei teologi, del diritto canonico, dei concili, della liturgia".
    Ratzinger rifiutava l’idea che fosse una lingua per pochi eletti, simbolo del potere e retaggio di un passato che il Concilio Vaticano II aveva cercato di archiviare: "Il latino è l’idioma con cui la chiesa si è rivolta a tutti i popoli. Rispecchia l’immutabilità della fede", continuava il presidente dell’Accademia.
    Francesco ha scelto un’altra strada: i canti rimangano pure in latino – il portavoce della sala stampa della Santa Sede, padre Lombardi, ha chiarito qualche settimana fa che la musica sacra non rientra tra gli interessi principali di Bergoglio -, ma la messa si celebri per quanto possibile in italiano.
    E’ la concezione diocesana del papato: il Pontefice vuole mettere l’accento sull’essere prima di tutto il vescovo di Roma, la chiesa che presiede nella carità tutte le altre chiese, come diceva sant’Ignazio
    d’Antiochia.
    (Da Il Foglio, 8/5/2013).

  • Pasqua-Papa-Francesco-Vaticano

    MESSAGGI IN HINDU E CINESE

    Intorno alle dieci i fedeli sopraggiunti nell’ultima ora, non riuscendo più ad accedere a piazza San Pietro e a piazza Pio XII, già pienissime, avevano gremito l’intera via della Conciliazione. La liturgia della parola era poi iniziata con la lettura, dapprima in lingua spagnola, di un brano dagli Atti degli Apostoli. Poi erano stati letti messaggi augurali in tutte le lingue, e tra questi un messaggio per Papa Francesco in hindu e uno in cinese. «Signore dissolvi ogni paura e rendi possibile ciò che il nostro cuore non osa sperare», aveva detto il Papa aprendo la liturgia eucaristica. Alle 11.34 la benedizione finale del santo Padre ha chiuso la messa, seguita dal Regina Coeli. Poi il pontefice ha lasciato il sagrato per attraversare la piazza tra i fedeli – si è fermato anche ad abbracciare e baciare alcuni bambini – e quindi raggiungere la Loggia da dove impartire la benedizione «Urbi et Orbi», preceduta dal suo messaggio.
    (Da roma.corriere.it, 31/3/2013).

    Il saluto Urbi et Orbi di Papa Francesco
    Secondo il suo stile, il Papa elimina le sovrastrutture – ha evitato il tradizionale saluto in 65 lingue – e comincia dall’essenziale…
    (Da corriere.it, 31/3/2013).

  • Un Papa nuovo

    IL POLIGLOTTA CHE USA L’ITALIANO LA SCELTA PER COMUNICARE MEGLIO

    di Luigi Accattoli

    E’ poliglotta ma non parla le lingue. Ieri papa Bergoglio ha ricevuto il corpo diplomatico e ha parlato in italiano, mentre è un antico blasone della diplomazia vaticana l’uso del francese, sempre rispettato dai Papi. Nell’ultimo Angelus – il 24 febbraio – Benedetto aveva salutato in cinque lingue, all’ultima udienza generale – il 27 marzo – ne aveva usate 12. Il 25 dicembre aveva detto «Buon Natale» in 56 lingue.
    Papa Francesco finora ha parlato solo in italiano e non ha mai salutato nella loro lingua neanche
    gli argentini che erano venuti per l’inizio del Pontificato. Del resto aveva suggerito ai connazionali di non venire a Roma e di donare ai poveri il prezzo della trasferta. Ecco il punto: riduce le lingue come le vesti.e gli ornamenti, e come forse vorrebbe ridurre le spese e il fasto.
    La rinuncia alle lingue è una tessera del ridimensionamento degli aspetti scenici e rituali della
    figura papale per recuperare Messa l’immagine di «vescovo di Roma». Oltre all’italiano e allo
    spagnolo, Bergoglio parla il tedesco, il francese, l’inglese: dicono in Vaticano che l’attuale stretta
    astinenza dalle lingue non sarà «per sempre»: le userà – possiamo interpretare – quando ne
    avrà bisogno, ma non per sistema.
    Con questa fuoriuscita – per ora solo simbolica – dallo schema formale dell’esercizio «ricevuto» del ministero petrino egli persegue più obiettivi: si libera dalla tutela della Curia, predispone l’opinione pubblica all’accoglienza di una figura papale in relazione con il suo «popolo», l’avvicina alle attese delle altre Chiese.
    Se a poche ore dalla fumata bianca il nuovo Papa legge ai cardinali un’allocuzione in latino preparata dagli uffici, è chiaro il segnale di spoliazione delle caratteristiche personali e di rivestimento
    istituzionale implicito in quel modo di presentarsi al mondo. Ecco invece Papa Francesco che accantona quel testo e parla come gli detta il cuore: forse proclama di meno ma comunica di più, perché resta se stesso, una persona che si mette in gioco nelle parole che pronuncia e nelle relazioni che stabilisce. Ecco perché ognuno si sente autorizzato ad abbracciare il Papa argentino.
    Già molti alleggerimenti della figura papale erano stati tentati dai predecessori, tra i quali ci fu chi andò a sciare sui monti e chi pubblicò libri su Gesù dicendo: «Ognuno è libero di contraddirmi».
    Ma si direbbe che papa Francesco voglia arrivare più lontano, come ad accentuare la dimensione personale e carismatica del ministero papale diminuendone la componente istituzionale e di governo.
    Forse vuole che anche nella gestualità quotidiana il Papa non appaia più Capo della Chiesa e Capo di Stato (immagino che non ascolteremo mai questi titoli papali sulla sua bocca), ma cristiano tra i cristiani e vescovo tra i vescovi, chiamato a guidare la Chiesa di Roma che «presiede nella carità» all’intera famiglia cristiana. Nel saluto dalla Loggia dopo l’elezione questo concetto ebbe a dirlo con parole impegnative che sono restate fino a oggi quelle dotate di maggiore portata programmatica e che sono piaciute agli interlocutori ecumenici: «E adesso incominciamo questo cammino: vescovo e popolo. Questo cammino della Chiesa di Roma, che è quella che presiede nella carità tutte le Chiese».
    La liberazione della figura papale dall’armatura istituzionale, che Papa Francesco viene attuando sotto gli occhi attoniti dei cultori del sistema ecclesiastico tardo tridentino, è probabilmente destinata ad avere rilevanza ecumenica. Giovanni Paolo II invitò l’ecumene cristiana a interrogarsi su nuove modalità di esercizio del «primato» romano che potessero essere accettate da tutti: ed ecco che papa Francesco libera dal vecchio e rende pronta al nuovo la figura papale.
    (Dal Corriere della Sera, 23/3/2013).

  • L’ATMOSFERA HA IMPRESSO IL SUO STILE ESSENZIALE E GENTILE ANCHE ALL’ABDICAZIONE PUBBLICA

    di Aldo Cazzullo

    … L’immagine del sonno di Dio getta per un attimo nello sgomento una folla fino a quel momento solidale e quasi lieta, Ratzinger lo percepisce e torna a dire la parola «gioia» che alla fine pronuncerà sei volte (ormai ha imparato a dire la g dolce dell’italiano) e la ripeterà in francese, la lingua che ha studiato da ragazzo e che ama quasi quanto quella natale. I fedeli sventolano tutte le bandiere della cristianità, la banda attacca l’inno bavarese, viene innalzato lo striscione «Danke Benedikt».«Benedetto di nuovo Papa» è scritto invece in italiano, c’è ancora chi non ha capito la modernità della sua rinuncia, ed è in effetti legittimo temere che Ratzinger abbia creato un precedente, che il successore – per cui invita a pregare – possa essere esposto a pressioni da cui tradizionalmente il Pontefice romano era tenuto al riparo. Ma oggi il Papa chiede al suo popolo di capirlo. Gli trema un po’ la voce impartendo l’ultima benedizione: «Pater et Filius et Spiritus Sanctus…». Fa impressione sentirlo abbandonare il latino e parlare di privacy: «Chi assume il ministero petrino appartiene sempre e totalmente a tutti, a tutta la Chiesa. Alla sua vita viene, per così dire, totalmente tolta la dimensione privata». Ma non è nel privato che vuole tornare, «non abbandono la croce» dice evocando Wojtyla e il severo giudizio di Stanislao Dziwisz, «resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso». L’ultimo a vedere il volto di Giovanni Paolo II fu proprio il suo segretario, cui toccò la velatio prima della chiusura della bara e del funerale solenne. Benedetto XVI, deposte le scarpette rosse, spogliato dei segni della sua missione, uscirà dalla storia a bordo di un elicottero, con un’immagine che i 3.500 reporter accreditati si contenderanno oggi pomeriggio. Bertone lo saluterà nel cortile di San Damaso, prima di distruggere l’anello piscatorio. Angelo Sodano, il decano dei cardinali, lo accompagnerà fino all’elicottero. Saverio Petrillo, direttore delle ville pontificie, lo accoglierà a Castel Gandolfo, dove vive da 53 anni. Il Papa rivolgerà ai fedeli in attesa un breve saluto. Poi manterrà la sua promessa, e «scomparirà dal mondo».
    (Dal Corriere della Sera, 28/2/2013).

  • L’ATMOSFERA HA IMPRESSO IL SUO STILE ESSENZIALE E GENTILE ANCHE ALL’ABDICAZIONE PUBBLICA

    di Aldo Cazzullo

    … L’immagine del sonno di Dio getta per un attimo nello sgomento una folla fino a quel momento solidale e quasi lieta, Ratzinger lo percepisce e torna a dire la parola «gioia» che alla fine pronuncerà sei volte (ormai ha imparato a dire la g dolce dell’italiano) e la ripeterà in francese, la lingua che ha studiato da ragazzo e che ama quasi quanto quella natale. I fedeli sventolano tutte le bandiere della cristianità, la banda attacca l’inno bavarese, viene innalzato lo striscione «Danke Benedikt».«Benedetto di nuovo Papa» è scritto invece in italiano, c’è ancora chi non ha capito la modernità della sua rinuncia, ed è in effetti legittimo temere che Ratzinger abbia creato un precedente, che il successore – per cui invita a pregare – possa essere esposto a pressioni da cui tradizionalmente il Pontefice romano era tenuto al riparo. Ma oggi il Papa chiede al suo popolo di capirlo. Gli trema un po’ la voce impartendo l’ultima benedizione: «Pater et Filius et Spiritus Sanctus…». Fa impressione sentirlo abbandonare il latino e parlare di privacy: «Chi assume il ministero petrino appartiene sempre e totalmente a tutti, a tutta la Chiesa. Alla sua vita viene, per così dire, totalmente tolta la dimensione privata». Ma non è nel privato che vuole tornare, «non abbandono la croce» dice evocando Wojtyla e il severo giudizio di Stanislao Dziwisz, «resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso». L’ultimo a vedere il volto di Giovanni Paolo II fu proprio il suo segretario, cui toccò la velatio prima della chiusura della bara e del funerale solenne. Benedetto XVI, deposte le scarpette rosse, spogliato dei segni della sua missione, uscirà dalla storia a bordo di un elicottero, con un’immagine che i 3.500 reporter accreditati si contenderanno oggi pomeriggio. Bertone lo saluterà nel cortile di San Damaso, prima di distruggere l’anello piscatorio. Angelo Sodano, il decano dei cardinali, lo accompagnerà fino all’elicottero. Saverio Petrillo, direttore delle ville pontificie, lo accoglierà a Castel Gandolfo, dove vive da 53 anni. Il Papa rivolgerà ai fedeli in attesa un breve saluto. Poi manterrà la sua promessa, e «scomparirà dal mondo».
    (Dal Corriere della Sera, 28/2/2013).

  • UN ESEMPIO DI LATINO MODERNO

    di LUCIANO CANFORA

    Il testo originale del comunicato con cui Benedetto XVI ha annunciato le sue dimissioni è scritto, come è ovvio, in un latino costruito con prestiti ricavati da autori delle più diverse epoche. E’ una specie di mosaico che abbraccia quasi due millenni di latinità: dal ciceroniano «ingravescente aetate» al disinvolto «ultimis mensibus» che figura in scritti ottocenteschi (addirittura del calvinista Bachofen), fino al «portare pondus» che ricorre in Flavio Vegezio, Epitoma rei militaris, ma più frequentemente in autori quali Raimondo Lullo (Ars amativa boni), Tommaso da Kempis o anche nei sermoni di Bernardo di Chiaravalle.
    Spicca come prelievo dal dotto e audace Rufino traduttore di Origene, l’espressione «incapacitatem meam». Per altro verso solide attestazioni di epoca classica, da Quintiliano a Plinio, sorreggono la frase più importante di tutto il testo e cioè: «declaro me ministerio renuntiare» («dichiaro di rinunciare al mio ruolo di Papa»).
    Peccato però che, per una svista imputabile a qualche collaboratore turbato dalla gravità dell’annunzio, proprio nella frase cruciale sia stata inferta una ferita alla sintassi latina, visto che al dativo ministerio viene collegato l’intollerabile accusativo commissum («incombenza affidatami»). Avrebbe dovuto esserci, per necessaria concordanza, il dativo commisso.
    Come consolarsi di questo lapsus? Pensando per esempio ai rari ma disturbanti errori di latino che
    macchiavano le Quaestiones callimacheae di un grande filologo come Giorgio Pasquali, rettificate però nella ristampa realizzata poi dal bravissimo Giovanni Pascucci, grammatico fiorentino. Ma non è impertinente comparare un filologo laico con un Pontefice regnante?
    L’errore – si sa – si insinua sempre. Come il periodo tedesco, così il periodo latino è «ein Bild» (un quadro), in cui ogni tassello ha un suo posto e la ferita inferta alle concordanze risulta tanto più dolorosa.
    Analogo incidente è avvenuto addirittura nella frase di apertura, dove il Pontefice dice ai «fratelli carissimi» che li ha convocati «per comunicare una decisione di grande momento per la vita della Chiesa»: ma si legge pro ecclesiae vitae laddove avremmo desiderato pro ecclesiae vita. Sia stato il turbamento o sia stata la fretta, resta il disagio per le imperfezioni di un testo destinato a passare alla storia. E bensì vero che il latino dei moderni riflette la ricchezza e la novità della lingua dei moderni, ma alcuni pilastri della sintassi non possono, neanche in omaggio al «nuovo che avanza», essere infranti.
    (Dal Corriere della Sera, 12/2/2013).

  • Le dimissioni di Ratzinger, l’annuncio in latino

    "Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino". Papa Benedetto XVI, con un breve discorso in latino, ha annunciato che lascerà l’incarico il 28 febbraio.
    (Da repubblica.it, 11/2/2013).

  • «Pagina breviloquentis» Il Papa definisce Twitter

    di Luciano Canfora

    Ottima l’idea del Pontefice di estendere alla lingua latina le comunicazioni «telegrafiche» correntemente definite Twitter e che lui chiama «pagina publica breviloquentis», scrivendo a chi lo seguirà: «Tuus adventus in paginam publicam Summi Pontificis Benedicti XVI breviloquentis optatissimus est» (il tuo ingresso nella pagina Twitter ufficiale del Sommo Pontefice Benedetto XVI è graditissimo). Non a caso il medesimo ha rilanciato la lingua latina attraverso la rifondazione dell’Accademia Pontificia per la Latinità, presieduta dal Magnifico Rettore dell’Università di Bologna, insigne latinista nonché allievo di Alfonso Traina. Chi non ricorda l’importante lavoro del Traina sul Pascoli latino? E il Pascoli latino è un esempio lampante della vitalità di tale lingua. Commentando quella iniziativa in un’intervista per «Avvenire» soggiunsi che il latino senza il greco è cosa incompleta. Non dovrebbe essere difficile, specie ora che anche i politici si servono di questo strumento, twittare in greco antico. Non è forse l’Italia il Paese che esporta nel resto d’Europa, ricca sì, ma alquanto culturalmente impoverita, operatori culturali capaci d’intendere le due lingue classiche?
    (Dal Corriere della Sera, 18/1/2013).

  • SANTA SEDE E NUOVI MEDIA

    Ora il Papa twitta anche in latino

    di Gian Guido Vecchi

    L’indirizzo è @Pontifex_ln, la nona lingua scelta dal Papa per il suo profilo Twitter è quella a cui tiene di più: «Tuus adventus in paginam publicam Summi Pontificis Benedicti XVI breviloquentis optatissimus est», si legge a mo’ di benvenuto, «il tuo ingresso nella pagina Twitter ufficiale del Sommo Pontefice Benedetto XVI è graditissimo». Firmato: «Benedictus PP. XVI» dalla Città del Vaticano, «Ex Civitate Vaticana».
    20 GENNAIO – Il primo messaggio in quella che resta la lingua ufficiale della Santa Sede partirà domenica 20 gennaio, ma è bastato l’annuncio della Radio Vaticana perché i followers sul nuovo profilo (in tutto, tra le altre otto lingue, il Papa ha superato i due milioni e mezzo in poco più di un mese) cominciassero a moltiplicarsi.
    BREVITÀ – Del resto, fa notare sull’Osservatore Romano don Roberto Spataro, segretario della nuova Pontificia Accademia di Latinità, la lingua di Cicerone è ideale per il microblogging: «Twitter è uno strumento che impone una comunicazione rapida. Se dico in inglese "the corruption of the best one is horrible", in latino sono sufficienti tre parole: "corruptio optimi pessima": è una lingua che aiuta a pensare con precisione e sobrietà. E ha prodotto un patrimonio eccezionale di scienza, sapienza e fede».
    (Da corriere.it, 17/1/2013).

  • … Ai fedeli radunati in Piazza San Pietro e a quanti lo ascoltano attraverso la radio e la televisione, dopo il messaggio ‘Urbi et Orbi’ dalla Loggia centrale della Basilica Vaticana, Benedetto XVI ha inviato i suoi auguri di Buon Natale in 65 lingue. Oltre a quelle più diffuse del mondo, comprese naturalmente arabo, ebraico e cinese, il Papa ha fatto i suoi auguri, tra l’altro, in mongolo, romanes (la lingua dei rom), aramaico, suahili, kirundi e kinyarwanda, malgascio, hindi, tamil, malayalam, maori, guaranì e anche esperanto. La conclusione in latino: "Veritas de terra orta est!" (La verità è germogliata dalla terra), il suo augurio natalizio scelto in questo Anno della Fede, tratto da un verso dei Salmi.
    (Da Il pensiero del Papa alla Siria e ai cristiani. Contro le discriminazioni e le violenze religiose, repubblica.it, 25/12/2012).

  • SU TWITTER

    Centomila followers per il Papa

    Il Papa è sbarcato ieri su Twitter con il profilo @Pontifex, l’appuntamento con la storia è all’udienza di mercoledì 12 dicembre, verso mezzogiorno – per gli aspiranti cabalisti: le 12 del 12/12/12 -, quando Benedetto XVI invierà il suo primo messaggio. Ma c’è un altro aspetto a suo modo storico, per la Chiesa. La lingua principale, per la prima volta, non è l’italiano del vescovo di Roma ma l’inglese. In inglese è il profilo base, @Pontifex ,- i «followers», le persone che lo seguono, crescono al ritmo di centomila ogni quattro ore -, seguito da un suffisso per le altre sette lingue: @Pontifex_it l’italiano, @Pontifex_es lo spagnolo e così via in portoghese, tedesco, polacco, francese e pure arabo. Scelta inevitabile, in Rete, «i Vangeli sono in greco ellenistico perché era la lingua di scambio nel Mediterraneo, e oggi la koinè è l’inglese», riflette Giovanni Maria Vian, storico e direttore dell’Osservatore. «Non a caso Pasolini aveva progettato un film su San Paolo a New York, Londra…». D’altra parte i messaggi attingeranno agli interventi più importanti del Papa, in italiano.
    (Dal Corriere della Sera, 4/12/2012).

  • Cronache celesti

    di FILIPPO DI GIACOMO

    LA MESSA È IN LATINO: L’APERTURA DEL PAPA SPIAZZA I LEFEVRIANI

    Tanto tuonò, ma non piovve. Quando Benedetto XVI promulgò il motu proprio Summorum Pontificum, si sperò che il torto potesse essere corretto. Il documento infatti, permetteva ai fedeli desiderosi di celebrare la vita liturgica secondo la forma «extra ordinaria», cioè quella secolare in uso prima delle riforme, di essere sciolti dall’obbligo di un’autorizzazione preventiva da parte dei propri vescovi. Nella Chiesa, si celebrano liturgie eucaristiche variamente acculturate e tradotte in lingue di ogni continente, dunque non si capiva perché solo a coloro che chiedevano di celebrarla in latino, con gli stilemi liturgici dell`Occidente cristiano, dovessero essere inflitte restrizioni non attuate per nessun altro «esperimento liturgico».
    Per chi prima di giudicarlo l’ha anche letto, il motu proprio Summorum Pontificum risulta un documento chiaramente ispirato al pluralismo del Concilio Vaticano II, caratteristica non sempre attribuibile a diversi documenti dell’era wojtylana. Il documento papale porta la data del 7 luglio 2007, ma in Francia, nel numero del 5 luglio dello stesso anno, quindi in anticipo sulla pubblicazione del testo pontificio, Témoignage Chrétien, il più vivace settimanale europeo di informazione religiosa, pubblicava nella lingua di Cicerone (e senza errori, mentre ai latinisti di curia era sfuggito un «conditiones» al posto di «condiciones») un manifesto di «resistenza» contro la decisione di Benedetto XVI.
    I motivi? II rito della tradizione cattolica presupporrebbe uno sguardo negativo verso il mondo non cattolico, basato sul convincimento che la Chiesa sia tunica detentrice della verità; il biritualismo permesso da papa Ratzinger segnerebbe la vittoria dei tradizionalisti e la sconfitta dei conciliaristi. I primi sarebbero presto in condizione di imporre le nomine episcopali; anzi, e peggio, «episcopos Galliae cras regent», domani governeranno l’episcopato francese. In realtà, ciò che dopo cinque anni appare chiaro è un fatto certo: Benedetto XVI ha tolto di mano ai lefevriani l’esclusiva della messa tridentina presentata volentieri come celebrazione identitaria. L’editorialista di Témoignage Chrétien concludeva il suo scritto dicendo: «Juvet fortuna omnes qui repugnabunt», buona fortuna a chi vorrà resistere. L’iniziativa ha causato ai fedeli che hanno fatto ricorso alle disposizioni papali una quantità di ingiurie e pessime accoglienze in diverse diocesi. Tuttavia il 3 novembre, con una messa celebrata in San Pietro, hanno concluso una tre giorni romana fatta di pellegrinaggi e preghiere.
    Qualche giorno prima, il 29 ottobre, dalle fila dei lefevriani è stato espulso il vescovo negazionista Richard Williamson: un calcio che val bene una messa, anche se in latino.
    (Da Il Venerdì, (La Repubblica), 16/11/2012).

  • CHIESA IL PORPORATO E L’ISTITUZIONE DELLA NUOVA «ACCADEMIA» DEL VATICANO

    Ravasi: «Ci sono vescovi che non capiscono il latino»

    di Gian Guido Vecchi

    «I giovani preti? Se è per questo pure diversi vescovi fanno fatica, anche all’ultimo sinodo un po’ si rideva, molti hanno una difficoltà quasi strutturale a leggere e comprendere il latino, anche fra gli europei, e dico quello ecclesiastico che è molto più semplice della lingua di Cicerone…». Il cardinale Gianfranco Ravasi sorride con una punta di mestizia, come presidente del Consiglio della Cultura vaticano sarà lui a controllare la nuova «Pontificia Accademia di Latinità» (Pontificia Academia Latinitatis) che Benedetto XVI ha istituito ieri con un motu proprio nel quale scrive (in latino, ovvio) quanto sia «urgente» contrastare «il pericolo di una conoscenza sempre più superficiale». La Chiesa, aggiunge il Papa, è da duemila anni «custode e promotrice» del latino nel mondo. Eminenza, il Papa parla dei seminari ma in generale dei giovani e del «vasto mondo della cultura». Quale sarà il ruolo dell’Accademia? «Esistevano già delle istituzioni vaticane come la Latinitas, da ora estinta, però adesso si vuole rivedere tutta la questione in modo diverso. Anzitutto c’è un valore che si considera permanente dell’umanità: il latino – con il greco, naturalmente – è una delle matrici assolute della cultura europea e occidentale. Per questo il Santo Padre ha nominato presidente dell’Accademia un grande latinista come il professor Ivano Dionigi, rettore dell’università di Bologna. Non è solo un problema ecclesiale». Quindi, come si muoverà? «Prima di tutto ci si impegnerà nella diffusione della cultura latina alta e dei suoi contenuti, che sono inscindibili dalla conoscenza della lingua. Ogni traduzione è sempre una belle infidèle, come diceva Gilles Ménage, anche se è bella è infedele. Io, per dire, penso che Agostino perda la metà. Pensi alle Confessioni, «Nondum amabam, et amare amabam… quaerebam quid amarem, amans amare…», ma come si fa?, è come tradurre Dante, Agostino sta dicendo che ancora non amava davvero perché non sapeva quale fosse l’oggetto del suo amore e c’è una bellezza musicale nella lingua, lui ne è un cultore raffinato, ci gioca. Così vogliamo recuperare tutto il grande patrimonio culturale latino, classico, patristico e medievale: per il mondo. L’Accademia si amplierà a livello internazionale, con diverse personalità laiche». Benedetto XVI parla anche dei seminari…«Certo, il secondo elemento è ad intra. Il latino è stato ed è la lingua ufficiale della Chiesa, in latino sono gli scritti dei Padri, i documenti della tradizione, i testi dei Concili, del magistero dei Papi, i libri liturgici… Ci vuole un impegno maggiore nei seminari, bisogna fare in modo che riescano a capirli!». Come si è arrivati a questa situazione? «Non è solo colpa della Chiesa, c’è un problema generale degli studi umanistici. Del resto una volta per studiare teologia nei seminari si doveva venire dal liceo classico e poi non è stato più così, i corsi integrativi non sono bastati, bisogna fare di più. Ma c’è un terzo livello…».Quale? «Il recupero del latino nella modernità. Oggi c’è il gusto di ritornare alla lingua, lo sa che in Finlandia esiste un quindicinale per ragazzi in latino? Perché il latino ha una funzione formativa. L’inglese parlato – non dico quello alto – è una semplificazione, quasi un "twitteraggio" del pensiero. Mentre il latino ha una forte impronta razionale, la costruzione dei casi, i verbi, la consecutio temporum… Per questo lo si vuole riproporre ai giovani». C’è chi farà l’equazione latino-Chiesa preconciliare…«Lo so, purtroppo. Se si vuole c’è un recupero del passato e del suo patrimonio, ma non reazionario né sterile. La bellezza del latino non è alternativa o contrapposta alla Chiesa postconciliare. E poi mi piacerebbe sapere se quelli che partecipano ai riti latini sarebbero in grado di tradurmi gli inni di Sant’Ambrogio, così raffinati e complessi… Anche loro ne hanno bisogno!».
    (Dal Corriere della Sera, 11/11/2012).

  • ALL’UDIENZA DI IERI

    Primo messaggio in arabo del Pontefice «Prego e vi porto la benedizione di Dio»

    Durante l’udienza pubblica di Papa Benedetto XVI, uno degli speaker ha letto ieri un messaggio del Santo Padre in arabo. Subito dopo Benedetto ha personalmente fatto un saluto in arabo. «Il Papa prega per tutta la popolazione di lingua araba. Dio benedica tutti voi», ha detto il pontefice.
    Come annunciato due giorni fa, dunque, questa lingua si aggiunge alle altre sei tradizionalmente usate nell’udienza pubblica del mercoledì. Il Vaticano ha deciso di aggiungere l’arabo per ricordare ai cattolici di pregare per la pace in Medioriente.
    «Cari figlioli, sento le vostre voci. La mia è una sola, ma riassume tutte le voci del mondo; e qui di fatto il mondo è rappresentato. Si direbbe che persino la luna si è affrettata stasera…».
    E passato alla storia come «il discorso della luna». Quella sera di 50 anni fa, l’11 ottobre del 1962, Giovanni XXIII concluse rivolgendosi a braccio ai fedeli raccolti in piazza San Pietro la giornata di apertura del Concilio vaticano II.
    Nel 1959, poco dopo l’elezione al soglio pontificio Papa Roncalli aveva annunciato -«a sorpresa», ricordava ieri l’Osservatore romano – l’assise di quasi tremila vescovi da tutto il mondo per un «aggiornamento» della Chiesa cattolica, poi conclusa nel 1965 da Paolo VI. Per ricordare quella «giornata splendida», il Papa Bedetto XVI celebra una messa solenne a piazza San Pietro.
    A cinquant’anni di distanza, il Concilio continua a far discutere. I documenti approvati dai padri conciliari sono stati oggetto di un dibattito decennale che, con l’elezione di Benedetto XVI, si è intensificato. Da giovane teologo Ratzinger partecipò al concilio come perito teologico del cardinale Joseph Frings di Colonia. Espresse posizioni molto avanzate, ad esempio sulla collegialità dei vescovi. Come ha raccontato egli stesso nella sua autobiografia, la violenta contestazione studentesca del ‘68 fece cambiare idea al giovane professore Ratzinger sul vento di novità che spirava dentro e fuori la Chiesa.
    (Da Il Giornale, 11/10/2012).

  • LA DISCUSSIONE

    I vescovi italiani preferiscono la vecchia formula

    di Luigi Accattoli

    Il dibattito sulla formula della consacrazione del vino nelle lingue moderne dura da quarant’anni. La questione è stata riproposta dal Papa l’aprile scorso sollecitando il passaggio dal «sangue sparso per tutti» al «sangue sparso per molti», perché si abbia una traduzione meno «interpretativa» e più letterale del latino pro vobis et pro multis. Chi vuole mantenere «per tutti» esprime il timore che i fedeli non intendano correttamente il nuovo testo e lo interpretino nel senso di una «restrizione» del numero dei salvati. Sostiene inoltre che il polloi greco – che è all’origine del multis latino – non si oppone a «tutti» come il «molti» della nostra lingua e che dunque occorre tradurlo con una parola che resti «aperta» alla totalità. Per primi si sono adeguati all’indicazione del Papa i vescovi ungheresi, seguiti da alcuni episcopati dell’America Latina e dagli anglofoni. Sono in arrivo – nel senso che si sono detti favorevoli al «molti» ma non è ancora pubblicato il nuovo Messale – tedeschi, spagnoli e portoghesi. Gli italiani restano su una posizione di attaccamento al «tutti»: hanno votato a maggioranza per il suo mantenimento nel 2010. Ultimamente due studiosi hanno proposto una traduzione che echeggi quella francese, che in italiano verrebbe a suonare «per una moltitudine», o «per moltitudini immense»: sono Francesco Pieri, professore a Bologna di liturgia, e Silvio Barbaglia, professore di esegesi biblica a Novara. Il testo di Bruno Forte, vescovo e teologo, che pubblichiamo qui accanto e che invita ad accogliere l’ indicazione papale, riequilibra le posizioni.
    (Dal Corriere della Sera, 26/8/2012).

  • IDEE & OPINIONI STRAFALCIONI ONLINE

    E nel Vaticano II torna la «razza» ebraica

    di Alberto Melloni

    Lavora o ha lavorato per il sito della Santa Sede. Ignoriamo il suo nome, i suoi studi, cosa abbia pensato mentre mutavano i rapporti fra la Chiesa ed Israele. Ma questo sconosciuto – impunito come chi commercia carte e gossip d’ oltre Tevere – è riuscito a depositare nel sito web vatican.va, per sfregio, una riga sulla «razza» ebraica. L’ ha infilata nella traduzione italiana del Vaticano II: Nostra ætate affermò che la Chiesa ha sempre innanzi agli occhi le parole di Paolo «de cognatis eius» (cioè «sui suoi congiunti») che dicono che l’adozione, la gloria, il patto, la legge, il culto e le promesse appartengono a Israele e ai padri «dai quali è nato Cristo secondo la carne». Nel sito vatican.va quel «de cognatis» viene oggi tradotto «della sua razza»: ebraica, naturalmente. Non è un errore antico: è un atto recente, volontario. Il testo latino (lo mostra la mia critica del Vaticano II nei Conciliorum ocumenicorum generaliumque decreta) non dava appigli. L’ Osservatore Romano del 17 novembre 1965 traduceva «della sua stirpe». Le altre traduzioni d’allora, raccolte senza ritocchi dal sito, non hanno esitazioni. Il tedesco recita «Stammverwandten», cioè parenti. La versione portoghese parla di «compatriotas». L’inglese «kinsmen», come «soukmenovcích» in ceco. In swahili «juu ya watu wa ukoo wake» indica le persone «del suo clan». Più inquietante l’ «hermanos de sangre» dello spagnolo, identica al bielorusso. Solo in francese si era già osato tradurre «race» nel 1965 (idiozia rimasta intonsa anche nel sito odierno). La traduzione italiana usuale, dunque, è stata volontariamente manipolata per sfregiare il Vaticano II con un termine dalla storia inquietante: la razza. Entrato nella Spagna del secolo XV, passato al linguaggio giuridico e politico, venne consegnato dal trattato Sur
    l’inégalité des races humaines, opera del 1853 d’un cattolico come de Gobineau, a uno sviluppo «scientifico», di cui s’appropriano i perpetratori della Shoah. In quel lungo lasso di tempo anche il magistero cattolico ha parlato di razze: dalle discussioni sull’ ammissione ai sacramenti degli indios fino al formarsi di un magistero sull’unità della famiglia umana, che negli anni Trenta afferma l’ «uguaglianza delle razze». Con la dichiarazione dell’Unesco del 1950 – la Santa Sede era rappresentata dal nunzio Roncalli – il mondo ripudia l’idea di razza: e al Vaticano II, proprio nella dichiarazione Nostra ætate, la Chiesa rompe con l’antisemitismo «di qualunque tempo e di chiunque». Chissà se l’inventore di un inesistente Vaticano II «razzista» è un cretino inoffensivo o la voce in talare di xenofobi, antisemiti, suprematisti che innocui non sono. Ma che un nemico del Papa e della Chiesa faccia rientrare dalla finestra del web l’ombra d’un pensiero cacciato conciliariter dalla porta, dice che il Vaticano II ha ancora la forza di smascherare cosa c’ è davvero dietro il sogno, di liberarsene o di spuntarne con un preambolo tradizionalista lo sperone riformatore che pungola la carne della Chiesa.
    (Dal Corriere della Sera, 6/5/2012).

  • Il Messale in lingua friulana all’approvazione della Cei

    Il presidente della provincia di Udine, Fontanini, ha sottoposto la questione al cardinale Bagnasco. «Ora – ha detto l’esponente provinciale – attendiamo la promulgazione del Messale in marilenghe».

    La questione dell’approvazione del Messale cattolico in lingua friulana «sarà esaminata prossimamente» dalla Conferenza episcopale italiana. Lo riferisce, in una nota, il presidente della Provincia di Udine, Pietro Fontanini (Lega), che ha incontrato ieri ad Aquileia il presidente della Cei, card. Angelo Bagnasco, al quale ha sottoposto la questione, a margine del convegno ecclesiale delle Chiese del Nordest «Aquileia 2».

    Fontanini ha fatto recapitare ai 15 vescovi delle diocesi del Nordest una pubblicazione dedicata ai Patriarchi del Friuli, che ripercorre la storia del Patriarcato di Aquileia attraverso il racconto delle gesta dei 75 protagonisti che si avvicendarono alla guida nell’arco di 12 secoli nelle diverse sedi (Aquileia, Grado, Cormons, Cividale e Udine).

    «Ora – conclude Fontanini – attendiamo la promulgazione del Messale in marilenghe da parte della Conferenza episcopale italiana».

    (Da messaggeroveneto.gelocal.it, 16/4/2012).

  • LA NOVITA’

    Il Papa «cinguetterà» l’Angelus su Twitter

    I messaggi andranno in rete la domenica: obiettivo raggiungere i ragazzi

    di FRANCA GIANSOLDATI

    Chi l’avrebbe mai detto che il Papa un giorno avrebbe diffuso l’Angelus anche via Twitter? La data in Vaticano non è ancora stata fissata, ma a breve i cinguettii papali risuoneranno sul social network. E così la catechesi che ogni domenica precede la preghiera mariana verrà racchiusa in uno spazio ridottissimo. Appena 140 battute. Mica facile. Il lavoro di sintesi stavolta si presenta davvero impegnativo visto che le riflessioni del Papa Teologo sono piuttosto articolate e ricchissime di riferimenti biblici, prendendo spunto dal Vangelo della giornata. Ma forse i tweet di Benedetto XVI saranno un po’ come quelli di monsignor Giraud, il vescovo francese inventore delle tweetomelie che prima abbrevia il Vangelo e poi lo fa seguire da una mini riflessione. Chiaramente non sarà Benedetto XVI a scrivere sul pc ogni domenica, poco dopo mezzogiorno, anche se i tweet andranno in rete solo con la sua approvazione.
    A farlo ci penserà una squadra di esperti sotto la guida di monsignor Claudio aria Celli, presidente del Pontificio consiglio delle comunicazioni sociali che ai microfoni di Radio Vaticana ha annunciato l’iniziativa e spiegato agli ascoltatori come è maturata e come al di là del Tevere si stiano organizzando per realizzarla. Il pontefice è entusiasta dell’idea ed è stato il primo a incoraggiarla. In questo modo sa che può arrivare senza filtri ai ragazzi attraverso un canale privilegiato, Twitter, sfruttando il loro linguaggio.
    «Perché questa scelta? Perché crediamo che i giovani abbiano una capacità di risonanza
    molto grande: il tweet può essere riformulato, ridistribuito, rilanciato, disseminato. E allora, direi che questo richiama l’immagine del Vangelo: il piccolo grano di senape che, sparso sul terreno, produce arbusti dove anche gli uccelli del cielo possono riposare» ha detto Celli. In ogni caso con l’apertura del sito Pope2you il Vaticano si era già mosso in questa direzione. Una prova generale è stata fatta nei giorni scorsi con il Messaggio del Papa per la Quaresima, anche in questo caso un testo elaborato e complesso. Il primo tweet recitava: «Fratelli e sorelle, la Quaresima ci offre ancora una volta l`opportunità di riflettere sul cuore della vita cristiana: la carità». Da tempo autorevoli uomini di Chiesa sono sbarcati sui social network per evangelizzare. Il cardinale Ravasi, per esempio, su Twitter viene seguito quotidianamente da quasi 13 mila followers e, ancora, il direttore di Civiltà Cattolica, padre Spadaro, è stato tra i primi porre sul tappeto il tema di come usare le potenzialità di questi mezzi. Inoltre è lui che ha fortemente voluto, l’anno scorso, l’incontro coi bloggers di tutto il mondo. Visto che le prediche domenicali di monsignor Giraud, il vescovo francese delle tweetomelie, riscuotevano tanto successo, l’idea dell’Angelus è stata conseguente. Se lo può fare un escovo, perché non il Papa? «Le nuove tecnologie permettono, come un tam tam della foresta, di far pervenire messaggi». Sicuramente il viaggio che a marzo Ratzinger farà in Messico e a Cuba sarà disponibile anche via Twitter.
    (Da Il Messaggero, 24/2/2012).

  • Il nuovo messale inglese parla troppo "romano"e irrita i liberal

    di ANTONINO PALUMBO

    Alla fine i critici hanno fatto un passo indietro nel nome dell’unità della
    chiesa della quale si sentono parte integrante. E così la nuova traduzione del messale cattolico in lingua inglese che per mesi ha spaccato in due fedeli d gerarchie può finalmente vedere la luce. Domenica prossima, per la prima volta in assoluto, la nuova traduzione verrà usata negli Stati Uniti,
    in Gran Bretagna, in Sudafrica, in Australia e in Nuova Zelanda.
    L’iter che ha portato alla stesura di un testo definitivo è stato lungo (più di dieci anni) e a tratti dissestato. Sono state le anime più liberal della chiesa anglosassone ad accusare il Vaticano di aver voluto una traduzione di parte, un testo fedele ai voleri della chiesa più tradizionalista. Vox Clara, in particolare, il comitato di vigilanza della Santa Sede presieduto dall’arcivescovo di Sydney, il cardinale George Peli, e che ha sovrinteso ai lavori di traduzione, è accusato di aver favorito una stesura troppo dissonante rispetto al testo usato dopo il Concilio Vaticano II, una traduzione che segue
    "in modo pedissequamente letterale" il testo latino, con una sintassi "involuta" ed espressioni "elitarie" difficilmente comprensibili dai fedeli.
    Protagonista delle critiche, tra gli altri, la rivista cattolica inglese di area progressista
    Tablet che ha pubblicato una lettera del benedettino Anthony Ruff indirizzata ai vescovi degli Stati Uniti. Rufi, dell’abbazia di Saint John a Collegeville in Minnesota,
    era fino a poco tempo fa a capo della divisione musica per la traduzione del messale. Nella lettera annuncia il suo ritiro da ogni impegno di promozione del messale, perché "sono convinto che i vescovi vogliono un oratore che sappia mettere in luce positiva il nuovo testo, ma ciò richiederebbe per me fare delle affermazioni che non condivido". Scrive ancora Tablet: "Ai cristiani cattolici viene richiesta l’obbedienza ai loro vescovi, ma quando i membri della chiesa sono costretti ad accettare ciò che non vogliono, è necessario che sappiano almeno che tutto ciò viene da un luogo ricolmo di Spirito Santo". Se questo luogo non c’è occorre che ricolmi di Spirito Santo siano almeno "i nostri superiori". Solo "una leadership di questo tipo può permetterci di crescere e cambiare attraverso la scomodità. In sua assenza, l’obbedienza dei cristiani potrebbe degenerare verso uno stadio
    di immaturità e di non responsabilità".
    Negli Stati Uniti molti liturgisti, settori del clero e comunità di credenti, hanno manifestato il proprio dissenso. Tra questi la rivista dei gesuiti America. Una petizione per fermare il cambiamento è stata promossa anche da un prete di. Seattle, Michael G. Ryan, che ha raccolto oltre ventimila firme. Anche qui il problema che torna è quello relativo all’eredità del Vaticano Il e alla volontà del Papa di recuperare e tenere viva tutta la tradizione precedente.
    Nel 1963 a occuparsi delle traduzioni dei vari messali nelle lingue volgari c’era l’International commission on english in the liturgy (Icel). Il suo lavoro, tuttavia, ricevette critiche provenienti questa volta dall’interno della Santa Sede perché le traduzioni non riproducevano fedelmente sintassi, punteggiatura e vocabolario della lingua latina. Nel 2001 il Vaticano mise così a punto una nuova Istruzione dal titolo "Liturgiam Authenticam" con la quale si stabilivano nuovi criteri per le traduzioni del messale romano; in sostanza si sceglieva il metodo letterale al posto di quello dinamico.
    Questi nuovi criteri sono quelli assunti da Vox Clara come base del proprio lavoro, criteri che negli ultimi mesi, in vista dell’introduzione della nuova traduzione, hanno diviso non poco la chiesa. Nella traduzione di Vox Clara un ruolo importante l’ha giocato l’ex presidente dei vescovi americani, il cardinale Francis George. E’ stato lui a depotenziare il ruolo dell’Icel e a favorire l’affermazione di Vox Clara. L’organismo vaticano presieduto da Peli in questi mesi non si è scomposto più di tanto
    per le critiche. Ha continuato a lavorare senza sosta convinto di portare avanti una traduzione gradita non soltanto a Benedetto XVI ma anche alla maggior parte dei fedeli e delle gerarchie.
    (Da Il Foglio, 24/11/2011).

  • Il Vaticano: studiate di più

    Pochi sanno celebrare la messa nella lingua della Chiesa

    di Gian Guido Vecchi

    L’osservazione appare oltre la metà del documento, punto 20 paragrafo b: «Per quanto riguarda l’uso della lingua latina, è necessaria una sua conoscenza basilare, che permetta di pronunciare le parole in modo corretto e di capirne il significato». Il che, in un testo della Santa Sede e a proposito di preti, potrebbe apparire una raccomandazione bizzarra. Come l’esortazione rivolta ai Seminari, «si dovrà
    provvedere alla formazione conveniente dei futuri sacerdoti con lo studio del latino». Perché il latino continua ad essere come dal 1V secolo il linguaggio ufficiale della Chiesa, perché ci sarebbero i testi dei Padri e le opere dei massimi pensatori della cristianità, da Agostino a Tommaso d’Aquino, come del resto encicliche e testi di riferimento.
    Il Vaticano, tra l’altro, è l’unico posto al mondo nel quale perfino i bancomat (Inserito
    scidulam quaeso ut faciundam cognoscas rationem, ovvero «inserisci per favore la scheda per accedere alle operazioni consentite») si dilettano nella lingua di Cicerone.
    Molti sacerdoti, però, hanno difficoltà. Fedeli e vescovi del mondo segnalano come sia
    sempre più difficile trovare preti in grado di celebrare o almeno capire il latino. Come si evince dall’«istruzione» Universae Ecclesiae, della pontificia commissione Ecclesia Dei, per la «corretta interpretazione e la retta applicazione» del motu proprio con il quale Benedetto XVI, tre anni fa, ha liberalizzato la messa in latino secondo il vecchio «messale romano». Fin dall’inizio era prevista una «verifica triennale». E in questo tempo non sono mancate polemiche: sostenitori del messale tridentino che accusavano alcune diocesi di voler sabotare la vecchia messa, vescovi che temevano divisioni tra i fedeli e così via. L’«istruzione», in questo senso, insiste saggiamente sulla «finalità di riconciliazione» del Papa, ha spiegato padre Federico Lombardi: e infatti da una parte invita alla «generosa accoglienza» dei fedeli che chiedessero la forma extraordinaria, cioè la vecchia messa; dall’altra avverte che questi fedeli «non devono in alcun modo sostenere o appartenere a gruppi che si manifestano contrari alla validità o legittimità della Santa Messa o dei Sacramenti celebrati nella forma ordinaria».
    Ma poi c’è un ostacolo che va al di là delle polemiche e della Messa tridentina. In molti casi, ha spiegato lo stesso portavoce della Santa Sede, era difficile trovare un prete che sapesse celebrare in latino. E non solo perché in pochi ricordano o hanno studiato il vecchio rito (l’ultima versione del «messale romano» è quella del 1962), il che si può capire. Ma anche perché, semplicemente, non sanno, o sanno poco, il latino. Possibile? Possibile: «Certo, nelle nostre università lo studio del greco e del latino è obbligatorio, ma certo è un problema nei seminari, una perdita grave», sospira l’arcivescovo Rino Fisichella, presidente del pontificio Consiglio per la «nuova evangelizzazione», già rettore della Lateranense: «Prima si faceva solo il liceo classico e il problema non si poneva. Oggi vi si arriva, dopo la maturità, anche da diversi tipi di studi che non prevedono il latino. E recuperare è difficile».
    Problema generale, considera il grande teologo Bruno Forte, arcivescovo di Chieti e Vasto: «Nella società contemporanea si è persa la consapevolezza dell’importanza delle lingue classiche, c’è una mentalità che contagia tutti: la comunicazione immediata, rapida, semplificante». Ma «la conoscenza delle lingue classiche è necessaria per chi vuole essere servitore della Parola di Dio», aggiunge Bruno Forte: «Prenda questa frase bellissima di Agostino: Nulla maior est ad amorem invitatio,
    quam praevenire amando. Sì, possiamo tentare di tradurla, dire che non c’è invito più grande all’amore che prevenire nell’amore.
    Ma uno che legge Agostino e non conosce il latino non apprezzerà mai la forza del suo messaggio, la sua potenza espressiva. Non stiamo parlando di qualcosa di superfluo o retrogrado: è un discorso di crescita nella verità e nella profondità della fede».
    (Dal Corriere della Sera, 14/5/2011).

  • VATICANO
    Sì alla messa in latino se si accetta il Concilio

    La messa in latino non è contro la Chiesa e il Papa. Solo chi accetta la riforma liturgica del Concilio Vaticano II, chi fa suo l’intento di unità con cui Benedetto ha liberalizzato l’antico rito, e chi riconosce l’autorità del Papa, può celebrare la messa nella «forma straordinaria del rito romano», con i messali del 1962. La liturgia ordinaria della Chiesa resta quella conciliare, con buona pace dei lefebvriani, e delle critiche che continuano ad indirizzare al Vaticano. Lo afferma senza possibilità di
    equivoco la «Istruzione Universae Ecclesiae» pubblicata dal Vaticano a tre anni dal motu proprio «Summorurn pontificum» con cui Benedetto XVI ha permesso l’uso della messa in latino secondo il rito anteriore alla riforma liturgica. Era prevista che in questi tre anni dalle diocesi e chiese locali giungessero osservazioni e segnalazioni di problemi circa la liberalizzazione della messa antecedente la riforma.
    (Da Il Messaggero, 14/5/2011).

  • Se l’inglese poco conciliare del nuovo Messale fa litigare il clero inglese

    di Paolo Rodari

    La nuova traduzione inglese del Messale – entrerà in vigore per volere del Papa il prossimo settembre – spacca in due il cuore della chiesa cattolica di lingua inglese.
    Sono le anime più liberal ad accusare il Vaticano di aver voluto una traduzione di parte, un testo fedele ai voleri della chiesa più tradizionalista. Vox Clara, il comitato di vigilanza che ha sovrinteso ai lavori di traduzione, è accusato di aver favorito una stesura troppo dissonante rispetto al testo usato dopo il Vaticano II, una traduzione che segue "in modo pedissequamente letterale" il testo latino, con una sintassi "involuta" ed espressioni "elitarie" difficilmente comprensibili dai fedeli.
    Cassa di risonanza delle proteste sono diversi media cattolici. Tra questi la rivista The Tablet che nell’ultimo numero ha pubblicato la lettera del benedettino Antony Ruff indirizzata ai vescovi degli Stati Uniti.
    Ruff, dell’abbazia di Saint John a Collegeville in Minnesota, era fino a poco tempo fa a capo della divisione musica per la traduzione del Messale. Nella lettera annuncia il suo ritiro da ogni impegno di promozione del Messale, perché "sono convinto che i vescovi vogliono un oratore che sappia mettere in luce positiva il nuovo Messale, ma ciò richiederebbe per me fare delle affermazioni che non condivido". Oltre a quello di Ruff, altri pareri negativi: un prete di Collegeville aveva chiesto tempo fa al suo vescovo cosa pensasse della traduzione.
    Risposta: "Credo proprio che sarà un disastro". Scrive The Tablet: "Ai cristiani cattolici viene richiesta l’obbedienza ai loro vescovi, ma quando i membri della chiesa sono costretti ad accettare ciò che non vogliono, è necessario che sappiano almeno che tutto ciò viene da un luogo ricolmo di Spirito Santo". Se questo luogo non c’è occorre che ricolmi di Spirito Santo siano almeno "i nostri superiori". Solo "una leadership di questo tipo può permetterci di crescere e cambiare attraverso la scomodità.
    In sua assenza, l’obbedienza dei cristiani potrebbe degenerare verso uno stadio di immaturità e di non responsabilità".
    Qualche mese fa il comitato Vox Clara è stato ricevuto dal Papa. Poco dopo ha diramato un comunicato in cui esprime "soddisfazione per l’accoglienza che il completamento della nuova traduzione del Messale ha ricevuto in tutto il mondo di lingua inglese".
    Anche secondo The Catholic Herald le autorità della chiesa in Inghilterra e Galles "non si aspettano resistenze alla nuova traduzione dei Messale". E, infatti, è stato il segretario in qualità di rappresentante della commissione liturgica dei vescovi a dire: "Ci sono persone che lo apprezzano e altre no e alcune che non ne sono sicure.
    Ma io sono convinto che tutto il clero sia un gruppo di persone abbastanza pragmatico alla fine". Sulla pragmaticità degli inglesi e della chiesa inglese tutti sono pronti a scommettere. Ma di certo la battaglia sul testo è destinata a continuare anche oltre il prossimo mese di settembre.
    (Da Il Foglio, 24/2/2011).

  • L’italiano (non il latino) è la lingua universale della Chiesa

    di Paolo Conti

    «Pur derivando da ragioni di tipo pratico, l’insegnamento nelle università e nei collegi pontifici determina una progressiva e ormai pienamente acquisita situazione in cui l’italiano è percepito non solo come lingua del territorio vaticano ma anche come lingua universale della teologia e del magistero teologico… L’italiano è ampiamente utilizzato dalla comunità internazionale dei teologi come lingua di scambio e comunicazione». Mentre l’Europa riduce di fatto a tre (inglese, francese e tedesco) gli idiomi veramente ufficiali dell’Unione, l’italiano può contare su una straordinaria agenzia planetaria che l’ ha adottato come il proprio inglese: la Chiesa cattolica romana. Lo spiega molto chiaramente il saggio «Tra universalità e compromessi locali. Il Vaticano e la lingua italiana» di Franco Pierno che appare nel volume, appena uscito, intitolato L’italiano nella Chiesa fra passato e presente edito da Allemandi e frutto di un lavoro parallelo della Società Dante Alighieri e l’Accademia della Crusca con la promozione dell’ambasciata d’Italia presso la Santa Sede. Pierno, dal 2008 Assistant professor al dipartimento degli Studi Italiani della Toronto University, parte da un presupposto. Cioè che il Vaticano «inteso tanto come realtà territoriale quanto come sinonimo di Santa Sede, pur avendo un’ apertura necessariamente universalistica, e di conseguenza un atteggiamento plurilingue, intrattiene un rapporto privilegiato e particolare con la lingua italiana». Formalmente non c’ è una regola che lo dichiari lingua ufficiale del Vaticano ma è quella usata di fatto nella legislazione e nelle comunicazioni interne. Il latino resta la lingua ufficiale «per i libri liturgici e il magistero papale» ma ormai da anni la nostra è «la lingua veicolare all’interno di un territorio la cui popolazione, secondo le stime più recenti, è italofona al 40% mentre il restante 60% dichiara di parlare altre lingue». Un’abitudine antichissima, ricorda Pierno, che fa risalire a Martino V verso il 1420, dopo l’esilio avignonese, la decisione di ricorrere «alla lingua cortegiana romana di forte base toscaneggiante». In effetti, elenca il saggio, in italiano esce l’edizione principale de «L’Osservatore Romano» dal primo numero dell’ 1 luglio 1861, seguito poi da versioni in molte altre lingue, e lo stesso avviene alla Radio Vaticana e per il sito web vaticano che, nel suo plurilinguismo, però «mostra facilmente una preponderanza della lingua italiana». Ma è soprattutto nell’insegnamento universitario che l italiano si consolida come lingua «universale» della cattolicità per un semplice motivo organizzativo: «Nelle istituzioni pontificie i corsi sono tenuti, da ormai diversi decenni, in lingua italiana dopo una secolare tradizione didattica di lingua latina». Molto interessante un esempio proposto da Pierno a proposito del discorso di Benedetto XVI al campo di Auschwitz-Birkenau del 28 maggio 2006. In quell’ occasione, spiega l’autore, il Papa decide di non esprimersi in tedesco per «buon gusto». Quando elenca il dolore leggibile sulle lapidi («una polifonia pluringue del dolore») lo fa in italiano: «La rievocazione di questo patrimonio comune del dolore espresso in modo multilingue non poteva avvenire che in una lingua ormai riconosciuta come universale e super partes dalla Chiesa: l’italiano».
    (Da Il Corriere della Sera, 13/12/2010).

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