Un 26 settembre diverso. È questo che dobbiamo augurarci. Come noto, la Giornata europea delle lingue proclamata nel 2001 dal Consiglio d’Europa, con il patrocinio dell’Unione Europea, si propone di incoraggiare il multilinguismo (solo per i non anglofoni però!) nel nostro continente.
In sé e per sé si tratta di una nobile iniziativa, perché chiaramente andare verso un’Europa federale (di cui noi siamo ferventi sostenitori) implica un’apertura notevole e una conoscenza più approfondita della cultura di tutti i paesi comunitari. Va da sé che la lingua è il medium imprescindibile e prioritario per un’operazione di questo genere.
Detto questo, bisogna però criticare con decisione le politiche linguistiche che sono state effettivamente intraprese dalla Ue. In primo luogo l’assenza di esse, come lamentano i più autorevoli studiosi di queste questioni, come Robert Phillipson e Tove Skutnabb-Kangas, giusto per citare due nomi al di sopra di ogni sospetto. L’Unione Europea infatti ha fatto poco o niente per pianificare delle politiche linguistiche sostenibili e utili, non ha mai ritenuto necessario sentire il parere degli esperti e, anzi, coloro che si sarebbero dovuti occupare del problema in seno alle istituzioni europee non avevano alcuna preparazione per farlo. Quando si è fatto qualcosa, ciò è stato fatto in palese violazione della legalità. Basti pensare al trilinguismo anglo-franco-tedesco imposto de facto come mezzo linguistico di lavoro all’interno delle istituzioni comunitarie e con la forza nel caso del brevetto unico europeo o dei famosi bandi di lavoro che, non a caso, sono stati oggetto di un ricorso da parte dell’Italia presso la Corte di Giustizia della Ue. Il ricorso è stato vinto, ma il trilinguismo continua ad essere imposto.
Una mera prova di forza, visto che esclude fra l’altro lo spagnolo, come lingua di lavoro certo più meritevole del tedesco e del francese, visto che è la seconda lingua al mondo per numero di madrelingua. Esclude anche l’italiano, lingua di un paese fondatore della Unione e quarta in assoluto più studiata al mondo.
Il punto centrale è d’altra parte il fatto che la Ue riconosca, così com’è scritto nei Trattati, come ufficiali 24 lingue, rendendo quindi un abuso la pratica del trilinguismo e generando continuamente controversie legali dispendiose in termini di tempo e denaro e una palese violazione della legalità. D’altra parte appare chiaro come lo stesso trilinguismo di fatto serva solo a mascherare il predominio della lingua inglese, l’unica nella quale vengono redatti davvero tutti gli atti istituzionali.
Da questo punto di vista si deve concludere che il multilinguismo, almeno così com’è stato portato avanti contraddittoriamente nell’Unione, ha fallito miseramente portandoci a un passo dal monopolio linguistico inglese in Europa.
Quando il presidente della Germania federale Gauck, lo scorso anno, ha invitato tutti gli europei a usare l’inglese fra di loro come lingua franca, ha rischiato di suggellare questo stato di cose e mandare un continente verso una avventata distruzione della sua diversità linguistico-culturale, e quindi della sua biodiversità.
Il problema è che l’inglese non è una lingua franca, una lingua nullius neutrale. Porta necessariamente con sé valori e vantaggi materiali che tornano utili sempre ai gruppi etnici e culturali di appartenenza, cioè ai popoli di lingua madre inglese e, nello specifico, ai più potenti: Gran Bretagna e, soprattutto, Stati Uniti.
Già Churchill, in quello che potremmo chiamare il suo manifesto di Harvard pronunciò nel 1943 presso la famosa università americana un discorso che identificava nella diffusione della lingua inglese un modo di penetrazione economico-culturale superiore a quello delle armi. “Gli imperi del futuro sono gli imperi della mente” affermò, cercando di incanalare il corso della storia verso il predominio angloamericano, basato sullo sfruttamento di tutto il pianeta e sull’asservimento mentale dei popoli attraverso l’inglese. Ma la penetrazione anglofona non bastava, evidentemente, ed oggi, dopo i casi Wikileaks e Snowden, l’inglese assurge a lingua per eccellenza di Stati spioni e bari.
Se l’Europa non troverà il modo di rispettare la diversità linguistica e culturale non solo a parole ma con i fatti, evitando la colonizzazione linguistica inglese che ne impedisce lo sviluppo economico e democratico, le conseguenze saranno tragiche. La soluzione è quella della lingua federale, non coloniale; è l’adozione della Lingua Internazionale (cosiddetta Esperanto) come lingua di tutti e ciascuno, una lingua d’amore, libertà e giustizia, lingua che appartiene alla storia dell’universalismo e umanesimo europeo, più antica del cinese moderno e tra le 140 lingue di letteratura del mondo riconosciute dal Pen Club International. Una lingua scudo per la Ue e le sue/nostre lingue, come per tutte le lingue del mondo, che darebbe serio impulso alle pratiche multilinguistiche, al contrario delle ridicolaggini che abbiamo visto fino ad ora.
Al contrario, non è un mistero che il governo italiano non abbia fatto proprio nulla per scudare il suo patrimonio immateriale, a partire proprio dalla lingua italiana, una delle più amate e studiate in tutto il globo. Non solo, ogni giorno assistiamo a nuovi oltraggi: la mente corre a università pubbliche come il Politecnico di Milano che vogliono eliminarlo definitivamente dall’alta formazione, cosa che paesi messi meglio del nostro come Germania o Francia non si sognano di fare.
Mentre noi svendiamo quindi la nostra ricchezza, tutto il mondo partecipa ai saldi, convinti, evidentemente, che comprare un pezzo di Italia serva eccome e sia un valore inestimabile. Dopo vestiti e cioccolatini in estate, la spesa d’autunno si è aperta più corposamente con Telecom, che passerà in mano spagnola, e Alitalia, che verrà ceduta per pochi spiccioli (ma noi ci terremo i debiti) ad AirFrance-Klm. E un destino non molto migliore si profila per Finmeccanica.
Non c’è nessuna alternativa se non ripartire rivalutando la nostra lingua, la nostra cultura e le nostre eccellenze.
Da questi eventi dobbiamo trarre l’unica conseguenza logica, che ciò che è italiano vale, per questo è ricercato. Molti italiani non ci credono più, non hanno rispetto per sé e per la tradizione che incarnano e che dovrebbero cercare di traghettare nel futuro in modo innovativo, come pure saprebbero tradizionalmente fare. La lingua deve essere il punto di partenza, come l’ERA si sforza di far capire da tempo e, in sede di convegno, fin dall’8 Febbraio scorso dove ha tenuto una grande giornata intitolata, appunto, “Internazionalizzazione della e nella lingua italiana”.
Ripartiamo quindi con il marchio “Fatto in Italia” per ri-fare l’Italia! Questo è l’appello che vogliamo lanciare a chi crede ancora che essere italiani abbia ancora valore: scriveteci!
Giorgio Pagano
www.libreriamo.it