La vecchia Europa e le potenze del futuro
Anno 2050: al G-6, il vertice dei Paesi economicamente più sviluppati, la Cina detta legge. Gli Stati Uniti, benché appoggiati dal Brasile, fanno fatica a tenerle testa. E la Germania, la Francia? Semplicemente non ci sono. Qualche tempo fa uno studio di un gruppo di economisti della Goldman Sachs ha calcolato che, agli attuali ritmi di sviluppo, tra poco più di quarant'anni i protagonisti assoluti dell'economia mondiale saranno quattro Paesi – Cina, India, Brasile e Russia – che fino a ieri hanno contato abbastanza poco come potenze industriali. Il Brasile, che molti considerano ancora Terzo mondo, tra poco più di vent'anni supererà l'Italia (come Prodotto interno, non come reddito pro capite).
Poco dopo la Russia scavalcherà la Germania. Le grandi democrazie europee, afflitte da una basso ritmo di crescita e da un rapido invecchiamento della popolazione, si troveranno ad avere più o meno il peso che ha oggi il Belgio nella Ue: un Paese ancora ricco, abbastanza ben governato, ma che non sposta molto nelle grandi decisioni politiche ed economiche. Le previsioni di una banca d'affari non sono il Vangelo, ma i governi occidentali sanno bene che è in questa direzione che stiamo andando, anche se non amano dilungarsi pubblicamente su scenari che sollevano interrogativi su questioni assai serie: dagli equilibri militari ai diritti umani, alle tutele per i lavoratori. La Cina, che nel 2050 potrebbe avere un reddito nazionale superiore di un terzo a quello degli Stati Uniti, sarà nel frattempo approdata alla democrazia? Avrà sviluppato una maggiore sensibilità ecologica? Quanto investirà nell'apparato militare? Una kermesse blindata come quella di Sea Island ha un senso se si discute anche di questo. Soprattutto quest'anno, visto che i risultati politici immediati che si potevano auspicare erano stati già conseguiti alla vigilia col riavvicinamento tra Cina, India, Brasile e Stati Uniti da un lato e Francia e Germania dall'altro, sulle spiagge di Normandia, e con l'accordo all'Onu sull' Iraq. Così il vertice di Sea Island, in Georgia, ha avuto soprattutto il sapore di un' esercitazione militare – flotta multinazionale schierata davanti alle coste del South Carolina, ricognitori continuamente in volo, andirivieni assordante di elicotteri e 20 mila soldati e poliziotti che hanno trasformato Savannah in una città fantasma attraversata da trincee di cemento e reti d'acciaio – attorno al «resort» sull'oceano che ha ospitato i Grandi.
Le foto, scattate tra le dune prima dell'arrivo dei rappresentanti arabi e africani, ritraggono dieci leader: un americano, un russo, un giapponese, un canadese e ben sei europei (compresi i due della Ue). Un quadro che rispecchia sempre meno la realtà, come hanno riconosciuto gli stessi capi di governo: tra una siparietto e l'altro è stato lo stesso Silvio Berlusconi a notare che tenere fuori Cina e India ormai non ha più senso, aggiungendo che anche di questo si è discusso sull'isola.
Forse ora bisognerà chiedersi se da parte cinese c'è la volontà di partecipare a questi vertici, accettando i vincoli di integrazione che ciò comporta. Pechino, in fondo, non ha ancora ben digerito nemmeno l'adesione al Wto, l'Organizzazione del commercio mondiale. Ma l'integrazione ha un forte valore economico, è motore di ulteriore sviluppo e questo alla fine dovrebbe far cadere i dubbi. In fondo, mentre tutti i business-men dicono che gli occhi dell'America sono ormai tutti rivolti al Pacifico, gli Stati Uniti l'anno scorso hanno investito nella sola Irlanda il doppio di quanto hanno impegnato in investimenti diretti in territorio cinese. E la «vecchia» Europa, spesso strattonata dalla Casa Bianca, ha ripreso a investire fortemente negli Stati Uniti e dà lavoro ai due terzi dei sei milioni di americani dipendenti di imprese straniere.