La pagina dei lettori.
Politica e linguaggi.
Caro Beppe, che il momento sia critico è cosa tanto evidente da non doverla più rimarcare. In questi anni di crisi economica e sociale gli italiani, prima tifosi di politica quasi quanto di calcio, sono stati così malamente sbatacchiati da non avere più nemmeno voglia di parlarne. “Tanto non cambia niente”: questa è la laconica sentenza che liofilizza lo stato d’animo attuale. Detto tra noi, poi, c’è ancora qualcuno che ne capisce qualcosa di politica? Destra, sinistra, centro: hanno ancora un significato?
E proprio sulle parole voglio soffermarmi. Sembrerà che vi parli del sesso degli angeli, ma io penso che la parola, apparentemente intangibile, se usata male può essere più perniciosa di un’arma.
Siamo passati dal politichese puro che inanellava espressioni del tipo “piattaforma programmatica” a new entry come “agibilità e credibilità politica”, o più figurate come rottamazione, o ancora a latinismi come porcellum. Quando l’inglese è out ricorriamo al latino, refugium peccatorum, è proprio il caso di dire!
I blocchi che io vedo, linguisticamente parlando, sono tre. Il primo è quello subliminale di Berlusconi, imbattibile sul versante autopromozionale. Come si conviene a un buon imprenditore, riesce ad anticipare le tendenze, riabilitando pure le rughe: chi l’avrebbe mai detto? In seconda posizione si trova Matteo Renzi, che parla come mangia ed è digeribilissimo. Sorvolerei su Cuperlo e i suoi naftalinici “popolo, ideologia, organi di partito”. Termino con i 5 Stelle, con chiari segni di incontinenza adolescenziale. L’effetto shock sperato sta sortendo l’effetto contrario. Non bisogna solo credere di avere ragione, ma essere in grado di dimostrarlo. Insomma, noi italiani siamo stati trattati per anni come degli scolaretti bisognosi di ripetizioni (lo capivate sempre il politichese?), poi come dei ganzi fuori tempo massimo, e infine come degli adolescenti ribelli. Ma insomma, c’è qualcuno che sia in grado di parlarci come a un popolo maturo? Ammesso che lo siamo, beninteso.
Marinella Simioli, marinella.simioli@virgilio.it
(Da italians.corriere.i, 1/2/2014).
Scuola: Twitter, Whatsapp e il massacro del linguaggio
Caro Severgnini, i social media hanno imposto e prodotto modificazioni rilevanti nell’uso del linguaggio. Ciò ha generato un inevitabile massacro della lingua (soprattutto la nostra, con una grammatica complessa) in nome di un numero limitato di caratteri disponibili per esprimere il proprio pensiero. Chi più si è adeguato a questo sistema sono le nuove generazioni, soprattutto gli studenti che talvolta affrontano un’interrogazione o un tema esattamente come se stessero utilizzando twitter o whatsapp, generando scandalo negli insegnanti.
Franco Di Lalla , franz.dilalla@gmail.com
Gli insegnanti si scandalizzano troppo facilmente. L’italiano s’impara e s’insegna, come ogni altra materia. La sintesi? E’ meritoria: asciuga i pensieri. A Giosué Carducci viene spesso attribuita questa frase: “Chi riesce a dire con venti parole ciò che può essere detto in dieci, è capace pure di tutte le altre cattiverie”. Non credo che l’autore delle “Odi barbare” l’abbia mai scritta o pronunciata (ho fatto le mie ricerche). Ma l’invettiva è magnifica, e mi associo.
(Da italians.corriere.it, 9/2/2014).
Stiamo esagerando
So di essere ripetitivo ma davvero insopportabile è l’invadenza con la quale l’inglese prende il posto dell’italiano anche là dove non vi sarebbe alcun valido motivo per rinunciare alla nostra lingua. Ecco alcuni esempi che provengono dalle telecronache sportive dei Giochi di Sochi:1-nello slittino non si parla più di banali “discese” ma di…”run”; 2- in una gara di pattinaggio artistico i “componenti” sono, chissà perché, “components”, 3- un primato personale è un “personal” e via di questo passo. Fanno davvero ridere,non trovo altra parola, questi giornalisti in erba convinti che, solo togliendo la lettera finale di una pa Sentire poi la loro pronuncia dell’inglese è un vero spettacolo. Paolo Sartori .
(Da forum.corriere.it/leggere_e_scrivere, 11-02-2014).
Virus verbali
Caro Beppe, secondo te perché si è passati da tipo a tipologia, da metodo a metodologia, da potenziale a potenzialità, da buon giorno a buona giornata?
Gloria Pomassa, gpomassa@gmail.com
Sono sintomi di un noto virus verbale, cara Gloria. Si chiama “importanzite”. Chi dice metodologia e non metodo si sente vagamente colto, decisamente moderno e piuttosto originale. Non solo: mantiene la parola più a lungo (sei sillabe contro tre). E questa è una tentazione irresistibile, come sai: a cena con amici, nelle assemblee di condominio o in televisione.
(Da italians.corriere.it, 17/2/2014).
Una battaglia in favore del latino.
Coloro che sanno leggere e tradurre la scritta latina sono solo 483.000. Egregio direttore, faccio appello al suo orgoglio di uomo di cultura perché si aggiunga nella battaglia che porto avanti da 20 anni. La salvaguardia della lingua latina nella scuola italiana. Più in specifico, lotto perché siano date a tutti, nelle scuole medie, le basi della lingua dalla quale è nata la nostra.
Come si sa, gli iscritti ai licei classici sono in forte diminuzione. Il latino nei licei scientifici è facoltativo. Nelle scuole medie non esiste affatto o se esiste lo si elargisce solo a coloro che andranno ad un liceo.
Operazione inutile perché in ogni caso i professori dei licei ricominceranno daccapo. D’altronde si danno le basi della musica a tutti, non soltanto a quelli che andranno ad un Conservatorio.
Visto che in questi 20 anni nessun ministro mi ha mai risposto né accettato di ricevermi in udienza, chiedo a Lei di associarsi in questa battaglia di civiltà. Il latino è cultura e solo dalla cultura può ripartire il rilancio anche scientifico del nostro Paese.
Spero di essere contattato: alcune soluzioni sono state già avviate anche se un minuscolo moscerino come me ha potuto giungere a risultati molto parziali. Un esempio. Ho dato via gratis 14.300 copie del libretto “Non scholae sed vitae discimus”. Romano Nicolini. Via mail
(Da La Nazione, 17/2/2014).
Il ‘futurismo’ e il ‘condizionalismo’ del politico
Caro BSev, dopo aver insegnato per quasi 30 anni lingua e letteratura italiane a livello universitario in Australia, recentemente mi sono ritirato a vita privata, ma seguo da vicino i fatti del Bel Paese via computer e televisione australiana. Recentemente ho rilevato un’enorme riduzione nel numero dei tempi verbali usati dai politici italiani. Mi spiego: il politico italiano ormai usa soltanto due tempi verbali. Abbonda il futuro, specialmente in frasi come: “Modificheremo l’esistente legge elettorale e ne introdurremo una semplice e moderna”. Altri esempi di… futurismo: “Diminuiremo le tasse e aumenteremo le pensioni, il che incrementerà il potere d’acquisto delle famiglie e favorirà una più veloce ripresa dell’economia nazionale” – “Faremo assegnamento soltanto sulle capacità intrinseche del popolo italiano, e ancora una volta ne verremo fuori e potremo esser di nuovo fieri di essere Italiani” – “Saremo sempre con voi e faremo tutto il possibile per cambiare le cose, perché gli Italiani lo meritano”. Queste frasi dicono e non dicono. Sono frasi roboanti, anche se assolutamente non vincolanti. E con tutto che appaiono anche al più superficiale degli ascoltatori, quali vuote promesse, pur se espresse con formula volutamente ambigua, vengono accettate tacitamente quali positivi piani programmatici virtualmente finali ed irrevocabili. E quando il futuro non basta, c’è ovviamente il condizionale: “Potremmo anche considerare una collaborazione coi grillini, che cambierebbe allineamenti e strategie parlamentari” – “Una decisione promuoverebbe una risoluzione dell’impasse, che a sua volta favorirebbe una discussione sul contenzioso”. Caro Bsev, il ‘futurismo’ ed il ‘condizionalismo’ del politico sono sintomi di una malattia che altrove si chiama disonestà intellettuale. Quindi identifichiamo queste fandonie e panzane, e respingiamole al mittente. Saluti dall’Australia,
Franco Leoni, fleoni@exemail.com.au
(Da italians.corriere.it, 17/2//2014).
Dopo 40 anni di bastard english
Bastard english. Sì, Bastard english! E’ quello che parlano milioni di persone appartenenti alle migliaia di organizzazioni e imprese pubbliche e private distribuite sul pianeta. Un vocabolario ristrettissimo, alcuni modi di dire standard, tante abbreviazioni e sigle specifiche del lavoro; intonazione, stress e musicalità linguistica inesistenti. Ciascuno squittisce i vocaboli a misura dei suoi muscoli vocali. Tutti aborriscono il pur minimo wording nuovo, generatore di occhi spalancati e facce perplesse. E dopo 40 anni di bastard english, ti trovi a non seguire un film in lingua, o acchiappi a mala pena il notiziario e solo se l’annunciatrice non ha la vocina smaccatamente “a trombettella”. Sì lo so, potevo fare pratica, pratica, pratica, andare al cinema, cinema, cinema, ma la sera si arriva a casa troppo stanchi per fare pratica sostanziale. E poi dovevo allestire quattro frasi di sopravvivenza nella lingua del paese che ci ospitava. E che cambiava spesso. “Wo ist die Toilette, bitte?”. Cesare Cerri, Roma, cesare.cerri@fastwebnet.it
(Da italians.corriere.it, 22/2/2014).