La lingua malata di stampa e tv

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La lingua malata di stampa e tv

di Piero Bevilacqua

Universale risuona la critica e il biasimo ai partiti, alla scadente qualità dei loro linguaggi.
Ma quale contributo di riscatto e di elevazione danno ad essi i mezzi prevalenti attraverso cui i partiti ricevono voce e rappresentazione? Quanto e in che modo stampa e tv contribuiscono a rendere evidente la modestia culturale e morale del ceto politico e quanto invece concorrono ad alimentarla? Il problema può essere offerto alla discussione, nella sua voluta parzialità, affrontando aspetti all’apparenza minori. Il primo riguarda il linguaggio: veicolo potente di messaggi, che trasformano in senso comune, in persuasione generale i dettami espliciti o occulti del potere. Si pensi a vulgate all’apparenza banali. L’uso sempre più diffuso del termine governatore per designare il presidente delle nostre regioni, non è solo un modo con cui tanti giornalisti italiani si gonfiano il petto: il presidente del Molise equiparato al governatore della California. Si fa passare l’idea leghista che il nostro sia uno stato federale. Cosa non solo infondata, ma storicamente irrealizzabile, essendo già il nostro uno stato unitario, che non deve "federarsi" per trovare un’unità che già possiede.
Non meno importanti gli anglismi utilizzati al posto del nostro vocabolario. Spesso di origine neolatina,
si immagina ch’essi assumano una patina culturale più elevata allorché vengono deformati dalla lingua
inglese. Rammento uno dei lemmi più inflazionati del linguaggio corrente, governance. Eppure
quel termine (dal latino gubernare, lett. «reggere il timone») nella storia della nostra lingua ha finito col significare una delle finalità più alte dell’agire politico: guidare le sorti degli uomini uniti in società.
Oggi che la parola ha fatto un bagno nel mondo della finanza e delle imprese, caricandosi di significati
economici e manageriali, viene utilizzato come se si fosse accresciuto di significato, non invece reso più specifico e unilaterale. Noi abbandoniamo le nostre parole con la loro densa storia e pensiamo di allargare gli orizzonti utilizzando quelle delle élites al comando, senza comprendere il nuovo marchio di potere che recano. Subiamo così una doppia insolenza: mentre i poteri dominanti manipolano ai loro fini le parole del nostro grande passato, noi le riutilizziamo, deformate, per introiettare ideologie del nuovo ordine che esse veicolano.
Ma le parole del giornalismo nostrano svolgono ben più importanti compiti. Nel panorama della carta
stampata alcune testate offrono un condensato di forme linguistiche (poi diluite nel linguaggio della
stampa non specialistica) finalizzato a creare universi psicologici di stampo neoliberista.
Si prendano gli inserti Corriere economia del Corsera o Affari e finanza di Repubblica. Qui le titolazioni
degli articoli sono un fuoco d’artificio futurista che esalta la velocità, la competizione, le fusioni:
«Non si ferma Esaote, anzi aumenta la velocità», «si scatena lo shopping», «corsa alle fusioni». A volte esse mimano le competizioni sportive: «Morandini prepara la staffetta»; «L’energia rinnovabile è in corsia di sorpasso». Più spesso vengono curvate in senso bellico e predatorio: «Colao scatena la guerra del mobile"», «Il Nord Est insorge per non perdere il treno dell’Europa». ». Certo metafore, anche se talora grottesco: » (Affari&Finanza del 1.2. 2010). Siamo quindi esortati a diventare più veloci, individualisti, competitivi, a incarnare la nuova antropologia di questa modernità da pescecani.
Non si comprende, tuttavia, l’efficacia persuasoria di simili titolazioni se non leggendole nella pagina
stampata: titoli, foto, piccole o grandi, dei manager, dei capitani d’industria, dei banchieri, divinità del nuovo Olimpo economico-finanziano. Se la ricchezza è frutto delle capacità di comando, dell’energia e dell’astuzia dei singoli, non solo scompare il lavoro sociale come produttore dei beni e servizi, ma viene esaltato l’individuo primeggiante sugli altri quale prototipo antropologico cui modellarsi.
Tale divismo imprenditoriale, che in Italia si combina perfettamente con quello calcistico, crea idoli a cui sono consentiti livelli oltraggiosi di arricchimento personale, fortuna e successo da ammirare. Gli stipendi milionari dei calciatori rendono popolare e legittimata la disuguaglianza. Così l’iniquità che lacera il tessuto della società viene sublimata agli occhi della massa dannata dei mortali, riscattabile solo in un possibile al di là: quel luogo dove il caso, l’astuzia personale, il duro lavoro, qualche fortunata vincita può condurre solo pochi eletti.
Naturalmente non è solo questione di linguaggio. Un problema fondamentale dei nostri media riguarda
la realtà rappresentata. Le prime pagine dei grandi quotidiani nazionali sono stracolme delle gigantografie dei leader politici immortalati nella loro gestualità sacrale. Mentre gli articoli sono per lo più il racconto aneddotico delle chiacchiere.
La tv non è da meno. I telegiornali, di qualunque rete, mettono in scena, ogni sera, una vera e propria
apoteosi del divismo del ceto politico, i talk-show sono abitati quasi sempre dagli stessi ospiti di riguardo. Non sottovaluto gli squarci di vita del paese reale che essi offrono. È giusto ricordare che essi hanno interrotto, a partire da Samarcanda di Michele Santoro, un decennio, gli anni ‘80, di cancellazione della realtà sociale del nostro Paese dai teleschermi. Ma in queste trasmissioni si mostrano gli operai disoccupati, disperati, sui tetti o sulle gru: quando fanno spettacolo. Mai nella quotidianità dei viaggi in treni sporchi e affollati, delle sveglie all’alba, del lavoro dentro capannoni dove per almeno 8 ore non si vede il cielo e si è assordati dal rumore dei macchinari. È l’ignoranza di questo mondo di dura fatica quotidiana che fa accettare a tanta opinione pubblicale disposizioni di economisti e governanti sugli orari, le pensioni, i salari di una umanità del tutto sconosciuta
ai suoi zelanti medici.
Ci può essere un effetto di democratizzazione del potere. Tutti possiamo constatare l’umana modestia
di chi sta al comando, spesso l’ evidente mediocrità. In passato il potere era largamente invisibile
e questo rendeva più insondabile il suo enigma. Ma bisognerebbe capire se ciò non accada anche
per il fatto che il potere reale, quello che orchestra i nostri destini collettivi, non sia nel frattempo trasmigrato altrove, lasciando apparire in propria rappresentanza solo dei modesti figuranti.
(Da Il Manifesto, 19/2/2013).

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