Là dove non si comunica nemmeno in inglese

Farsi capire a Pechino? Un affare cinese…

Viaggio fra le difficoltà di comunicazione con un popolo abituato a rispondere sempre “yes” per non sembrare sgarbato. E anche i gesti non sono d’aiuto

di Luciano Gulli

Non so il cinese. Però pensavo, prima di imbarcarmi sul volo per Pechino, che con l’inglese me la sarei cavata. O non è, l’inglese, la lingua franca del business, del turismo, del pop, del jazz e del rap, insomma del nostro pane quotidiano globale? E’ sempre andata così, del resto: da Mogadiscio a Timor Est, dal Baluchistan a Seul, da Gaza a Kabul. Parlo di quell’inglese elementare, quel pidgin english alla portata di qualsiasi tassista: day, night, good morning, bar, toilet, left, right. Le volte che l’inglese non ha funzionato ho sempre fatto ricorso alla mimica, alla gestualità. Chi ci batte, a noi italiani, in fatto di mimica e gestualità? Ecco: in Cina non funziona. Sorry…

Chi ha più di cinquant’anni ricorderà un modo di dire caduto un po’in disuso: “Un affare cinese”. Si diceva di un oggetto, di un fatto incomprensibile, di una sciarada. L’“affare cinese” era il mistero per definizione. Una cosa che comunque la giravi non riuscivi a decifrare. Ora so qual è l’origine di quel modo di dire.

Come molti giornalisti italiani, ho una camera al Poly Plaza hotel. Nome facile, vero? Infatti già dal primo giorno sono stato sull’orlo di una brutta crisi di nervi. Avevo detto al tassista: “Poly hotel”.Una corsa da sei, sette minuti. E lui, d’impeto: “Yes!”. Avrei imparato presto che il cinese non dice mai “no”. Gli sembra sgarbato. Trentotto minuti dopo, mentre vagavamo nella periferia verso la periferia ovest, io stavo facendo a pezzi un giornale, ricavandone delle pallottole che scagliavo con rabbia fuori dal finestrino, mentre il tassista, con la mano destra si schiaffeggiava, ululando cose tremende, credo, alternate a un sommesso rosario di autorimproveri. Poi, all’improvviso, un lampo. Mi guarda e fa: “Polì”, con l’accento sulla i. Io mi stringo nelle spalle. Lui parte a razzo e mi porta a casa. Ma anche dire “Polì” talvolta non basta. Alcuni pronunciano “Polìe”, e ingranano la prima solo quando arrotoli per bene la “e”…

Nel ristorante chic del nostro albergo, l’altra sera, è andato in scena un altro sketch che sembrava preso di peso da “Lost in translation”, film con Bill Murray e Scarlett Johansson sullo straniamento indotto da una cultura agli antipodi, da una lingua sconosciuta. Dunque: cameriere in tailleur nero e tacchi alti, come managerine, o come per andare a una festa col sultano del Brunei. Silenzio ovattato. Moquette alta due dita. Totale dei clienti: quattro. Chiediamo (noi siamo in due) un “pesce mandarino”. E’ nel menù… La ragazza in tailleur è completamente in bambola. Inglese: zero virgola. Cerca di dirci qualcosa, ma che cosa sia nessuno lo sa. Arrivano le altre. Gesti, parlottio, consultazioni allargate. L’“affare cinese” proietta la sua ombra malvagia su di noi. La ragazza voleva dirci, si capirà un bel po’ dopo, che la preparazione sarebbe stata piuttosto lunga. Alla fine trova le due parole che le mancavano: “Twenty minutes”, venti minuti. Ma da quando? Chiede il collega: da ora, o da quando è cominciata la discussione? Il dramma ricomincia, lei non ha capito la domanda, ma le sembra scortese allontanarsi. Sta lì a guardarci, a guardarsi la punta delle scarpe. Le viene da piangere. A noi pure…

Sorrido, indicando al ragazzo che sorveglia la porta dell’albergo lo spettacolo di ombrelli che sfila sulla Dongzhimenwai Dajie. Lui: “Vuò compla ‘mblella?”. No. Volevo dire… Intervengono altri tre ragazzi della reception e due hostess del Circo Olimpico. Discussione pazzesca. Che dannazione voglio? si chiedono le facce. “Story qui vicino”, dicono. Story? Che storia? Ma volevano dire “store”, negozio, magazzino.

Scappo in strada, sparando parolacce tremende. Passa una ragazza con gli occhiali. Una studentessa, sembra. Domando: “Sa dov’è il ristorante Dadong Kaoja?”. “Yes”. E’ lontano? “Yes”. Molto lontano? “Yes”. O vicino? “Yes”.

(Da Il Giornale, 20/8/2008).

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1 commento

  • Farsi capire a Pechino? Un affare cinese…

    Viaggio fra le difficoltà di comunicazione con un popolo abituato a rispondere sempre “yes” per non sembrare sgarbato. E anche i gesti non sono d’aiuto

    di Luciano Gulli

    Non so il cinese. Però pensavo, prima di imbarcarmi sul volo per Pechino, che con l’inglese me la sarei cavata. O non è, l’inglese, la lingua franca del business, del turismo, del pop, del jazz e del rap, insomma del nostro pane quotidiano globale? E’ sempre andata così, del resto: da Mogadiscio a Timor Est, dal Baluchistan a Seul, da Gaza a Kabul. Parlo di quell’inglese elementare, quel pidgin english alla portata di qualsiasi tassista: day, night, good morning, bar, toilet, left, right. Le volte che l’inglese non ha funzionato ho sempre fatto ricorso alla mimica, alla gestualità. Chi ci batte, a noi italiani, in fatto di mimica e gestualità? Ecco: in Cina non funziona. Sorry…

    Chi ha più di cinquant’anni ricorderà un modo di dire caduto un po’in disuso: “Un affare cinese”. Si diceva di un oggetto, di un fatto incomprensibile, di una sciarada. L’“affare cinese” era il mistero per definizione. Una cosa che comunque la giravi non riuscivi a decifrare. Ora so qual è l’origine di quel modo di dire.

    Come molti giornalisti italiani, ho una camera al Poly Plaza hotel. Nome facile, vero? Infatti già dal primo giorno sono stato sull’orlo di una brutta crisi di nervi. Avevo detto al tassista: “Poly hotel”.Una corsa da sei, sette minuti. E lui, d’impeto: “Yes!”. Avrei imparato presto che il cinese non dice mai “no”. Gli sembra sgarbato. Trentotto minuti dopo, mentre vagavamo nella periferia verso la periferia ovest, io stavo facendo a pezzi un giornale, ricavandone delle pallottole che scagliavo con rabbia fuori dal finestrino, mentre il tassista, con la mano destra si schiaffeggiava, ululando cose tremende, credo, alternate a un sommesso rosario di autorimproveri. Poi, all’improvviso, un lampo. Mi guarda e fa: “Polì”, con l’accento sulla i. Io mi stringo nelle spalle. Lui parte a razzo e mi porta a casa. Ma anche dire “Polì” talvolta non basta. Alcuni pronunciano “Polìe”, e ingranano la prima solo quando arrotoli per bene la “e”…

    Nel ristorante chic del nostro albergo, l’altra sera, è andato in scena un altro sketch che sembrava preso di peso da “Lost in translation”, film con Bill Murray e Scarlett Johansson sullo straniamento indotto da una cultura agli antipodi, da una lingua sconosciuta. Dunque: cameriere in tailleur nero e tacchi alti, come managerine, o come per andare a una festa col sultano del Brunei. Silenzio ovattato. Moquette alta due dita. Totale dei clienti: quattro. Chiediamo (noi siamo in due) un “pesce mandarino”. E’ nel menù… La ragazza in tailleur è completamente in bambola. Inglese: zero virgola. Cerca di dirci qualcosa, ma che cosa sia nessuno lo sa. Arrivano le altre. Gesti, parlottio, consultazioni allargate. L’“affare cinese” proietta la sua ombra malvagia su di noi. La ragazza voleva dirci, si capirà un bel po’ dopo, che la preparazione sarebbe stata piuttosto lunga. Alla fine trova le due parole che le mancavano: “Twenty minutes”, venti minuti. Ma da quando? Chiede il collega: da ora, o da quando è cominciata la discussione? Il dramma ricomincia, lei non ha capito la domanda, ma le sembra scortese allontanarsi. Sta lì a guardarci, a guardarsi la punta delle scarpe. Le viene da piangere. A noi pure…

    Sorrido, indicando al ragazzo che sorveglia la porta dell’albergo lo spettacolo di ombrelli che sfila sulla Dongzhimenwai Dajie. Lui: “Vuò compla ‘mblella?”. No. Volevo dire… Intervengono altri tre ragazzi della reception e due hostess del Circo Olimpico. Discussione pazzesca. Che dannazione voglio? si chiedono le facce. “Story qui vicino”, dicono. Story? Che storia? Ma volevano dire “store”, negozio, magazzino.

    Scappo in strada, sparando parolacce tremende. Passa una ragazza con gli occhiali. Una studentessa, sembra. Domando: “Sa dov’è il ristorante Dadong Kaoja?”. “Yes”. E’ lontano? “Yes”. Molto lontano? “Yes”. O vicino? “Yes”.

    (Da Il Giornale, 20/8/2008).

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