CONOSCERE LA LINGUA AL RISTORANTE TIPICO
Il libro di Roberto Giacomelli è un originale studio del gusto e degli idiomi europei
di Gillo Dorfles
Una delle operazioni più ardue quando si sbarca in un Paese straniero – anche quando ci si illude di conoscerne bene la lingua – è quella di decifrare i menù dei ristoranti e delle trattorie: i nomi dei pesci, delle verdure, della frutta sono spesso incomprensibili, tanto più se si vuol assaggiare i piatti tipici locali. Ebbene, alla peculiarità di questi nomi è spesso legata tutta una tradizione – non solo culinaria, ma storica e culturale. Chi non conosce (e mi limito ai piatti europei) il «macco» siciliano, la bagna cauda torinese, il pesto genovese, la jota triestina; per non parlare del gazpacho o della paella spagnola o dei Knoedel tedeschi… certamente non ha compreso e «assaporato» lo «spirito del luogo» e le sue più sottili sfumature del gusto. Per fortuna esistono anche alcune rare eccezioni alle trattazioni scientifiche dei diversi linguaggi, e un caso davvero esemplare ci è offerto dal recente volume, pubblicato proprio per farci pre assaporare i più tradizionali e anche i più raffinati alimenti con le loro relative denominazioni (Roberto Giacomelli, La cucina del professore, Edizioni dell’Orso, pp. 384, 20). Il «professore» ha abbandonato i suoi severi studi sul latino postclassico, sul messapico, sul greco epigrafico, per dedicare un grosso volume alle più celebrate e insieme popolari ricette dei diversi cibi. Oltretutto ritengo che la sua ricerca possa essere inclusa anche nell’ambito più specialistico della glottologia perché, tra un termine culinario e l’altro, affiorano dati linguistici che spesso sorprendono. Come ad esempio quando l’autore rintraccia l’origine del termine «pizza» nientemeno che dal tedesco «bissen»: «La pizza sarebbe una specie di mutuazione dal longobardo “bizzo”, antenato di parole come il tedesco moderno “bissen”». La lettura del volume – per chi non trascura questo importante settore della nostra esistenza – non solo è allettante per chi vuol conoscere le metodologie e i segreti delle più svariate pietanze, ma è denso anche di qualche sorpresa: di cultura elitaria soprattutto nei capitoletti dedicati a «Divagazioni e articoli»; dove traspare le personalità, non solo mangereccia, dell’autore. Ma, tutto sommato, come esiste una haute couture, perché non dovrebbe poter esistere una haute cuitture? Mi scuso per l’incauto neologismo, inventato solo per ottenere la rima; ma tutto è lecito, credo, a favore d’una buona cucina, anche le trasgressioni glottologiche, purché non si tratti di lasciarsi adescare da una «Nouvelle Cuisine»: sempre deprecabile, in quanto vuole cancellare le preziose cucine ancestrali.
(Dal Corriere della Sera, 7/1/2009).
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