La Commissione e gli interpreti si persero nella nuova torre di Babele

La COMMISSIONE e gli interpreti si persero nella nuova torre di Babele

di GIOVANNI BELARDELLI

Ben un terzo dei laureati che vengono assunti dalle istituzioni europee vanno a fare i traduttori e gli interpreti, come riferisce un recente opuscolo della Commissione europea ( Tante lingue, una sola famiglia , disponibile anche su Internet all'indirizzo: http://europa.eu.int/comm/publications). Ciò, evidentemente, non è che la necessaria conseguenza del fatto che, con l'allargamento dello scorso anno, l'Unione è passata non solo da 15 a 25 Stati membri, ma anche da 11 a 20 lingue ufficiali. Ad attenuare l'effetto «torre di Babele», ad evitare cioè che negli uffici delle istituzioni europee interpreti e traduttori debbano davvero lavorare secondo tutte le combinazioni linguistiche possibili (che sarebbero addirittura 380), stanno una serie di accorgimenti che il suddetto opuscolo non manca di riferire. A cominciare dall'esistenza di sei lingue «ponte» – inglese, francese, tedesco, italiano, spagnolo, polacco – utilizzate appunto allo scopo di ridurre l'incredibile ventaglio di combinazioni che si verrebbe altrimenti a produrre. Così, un testo in slovacco o in ungherese non viene direttamente tradotto in tutte gli altri idiomi ufficiali dell'Unione, ma prima nelle lingue «ponte» e solo successivamente nelle altre. Sarebbe però sbagliato se considerassimo la convivenza entro l'Unione europea di venti lingue ufficiali alla stregua di un problema unicamente tecnico. Non solo, come osserva il presidente dell'Accademia della Crusca in questa stessa pagina commentando l'eliminazione dell'italiano dalle conferenze stampa dei commissari, il fatto che alcune lingue siano utilizzate più o meno di altre ha evidenti implicazioni politiche. Ma l'esistenza nella UE di ben 20 lingue ufficiali pone anche inediti interrogativi riguardo al modo stesso di concepire la democrazia. È vero infatti che per Giuseppe Mazzini o Jules Michelet, per citare due esponenti della concezione democratica della nazione, a costituire appunto una nazione non erano principalmente né la lingua, né il territorio, né il retaggio storico, ma la coscienza comune degli appartenenti, cioè la loro volontà di formare una comunità. Ma certamente né Mazzini avrebbe mai rinunciato alla lingua italiana, né Michelet a quella francese. Ai loro occhi, infatti, il legame tra lingua e nazione rappresentava pur sempre una condizione preliminare della democrazia, lo strumento di base attraverso cui realizzare una libera comunità fondata su idee, interessi, affetti, ricordi e speranze comuni: fondata cioè su un insieme di cose che avrebbero perso molta della loro capacità evocativa, ma anche della loro realtà effettiva, se fossero state espresse in tante lingue diverse. Del resto, lo stretto legame tra lingua e democrazia dipende dal fatto stesso che i regimi democratici si fondano sul consenso e sulla comunicazione: un dibattito nel nostro Parlamento, un comizio sindacale, un discorso di fine anno del presidente Ciampi svolti in altra lingua che l'italiano ci sembrerebbero ovviamente inconcepibili. Così, il fatto che l'Unione europea impieghi una cospicua fetta delle sue risorse solo per tradurre ciò che vi si dice o vi si scrive, se da un lato appare come un dato praticamente inevitabile, dall'altro lascia anche balenare scenari futuri del tutto inediti, in cui – con il procedere stesso dell'integrazione politica – il rapporto tra lingua e democrazia potrebbe diventare problematico o, quanto meno, dovrebbe riuscire a declinarsi in modi radicalmente nuovi.

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