«Inglese, una lingua mal studiata»
Iamartino (Statale di Milano): test d’ingresso, un candidato su tre sotto i requisiti minimi
di Elena Comelli
Va al meeting sul management e poi fa un report per il suo boss, ma l’inglese – due su tre – non lo sa.
L’Eurobarometro segnala che il 59% degli italiani non conosce alcuna lingua straniera: peggio di noi solo irlandesi e britannici, due popoli anglofoni. Per tutti gli altri europei vige quasi un bilinguismo di fatto: la lingua madre più
l’inglese. Sotto questo profilo i campioni d’Europa sono i Paesi nordici, dove i bilingui si attestano sul 90% della popolazione, ma anche spagnoli, greci e portoghesi ci hanno superato. La vera novità, però, è un’altra: la nostra competenza linguistica peggiora invece di migliorare. Se si confrontano i dati del 2006 con quelli del 2001 si scopre infatti che gli italiani in grado di sostenere una conversazione in una lingua straniera sono scesi dal 46 al 41%. Cinque punti persi in cinque anni, alla faccia delle tre I (il famoso slogan con il quale si voleva ridare slancio
all’Italia: Impresa, Inglese, Informatica). Un quadro desolante, che corrisponde alle difficoltà denunciate da tutte le società di ricerca del personale: solo il 30-40% dei candidati risponde davvero al livello di conoscenza dell’inglese richiesto ormai dalle aziende. E perfino nei test d’ingresso alle facoltà di lingue, dove dovrebbero presentarsi i più portati, accade di tutto, come fa notare Giovanni Iamartino, anglista e direttore del Dipartimento di scienze del linguaggio all’Università Statale. Dai test d’ingresso esce la fotografia di un livello di competenza che non cresce? «Emerge che gli studenti continuano ad arrivare alla fine delle scuole superiori con la necessità di dirozzare le conoscenze di base. Un buon 30% dei candidati non possiede nemmeno i requisiti minimi, che noi riteniamo necessari per affrontare proficuamente il corso universitario. Questo non significa che non potranno entrare, perché da noi non esiste un numero chiuso, ma abbiamo istituito il diritto-dovere per gli studenti di frequentare un percorso di recupero preventivo, che li metta nella condizione di partire sullo stesso piano degli altri. E stiamo allargando questo sistema anche ad altre facoltà, come ad esempio a Medicina, dove l’anno prossimo per la prima volta verrà introdotto il test d’ingresso per verificare le conoscenze linguistiche di base». Da cosa dipende questa situazione? «Non c’è tanto da stupirsi: la società italiana esprime questo bisogno ma non dà riconoscimenti, pretende ma non vuole dare. I traduttori fanno la fame e l’insegnamento delle lingue nel nostro Paese, malgrado i progressi a livello di scuole elementari, nel complesso sta perdendo peso. Quest’ultima riforma delle scuole superiori, ad esempio, ha tolto ore alle lingue, andando contro le indicazioni di Bruxelles. Ma anche all’università non va meglio: nelle facoltà non letterarie le lingue sono state messe da parte per questioni di rivalità interne fra le diverse materie». Le soluzioni? «E’ semplice: se si vuole mettere gente preparata sul mercato del lavoro, va da sé che bisogna dare più spazio alle lingue, partendo dall’inglese, ormai lingua franca in tutti i settori dell’industria e della ricerca. Non si possono fare le nozze con i fichi secchi». Quindi? «Quindi più insegnanti d’inglese incardinati nelle facoltà, ma soprattutto maggiore spazio alle lingue e migliori insegnanti per le scuole superiori, perché i ragazzi ci devono arrivare più preparati: un corso universitario d’inglese non può partire dalle basi come il corso di russo, non deve insegnare a fare conversazione, ma a padroneggiare il vocabolario specialistico attinente alla propria professione». Certo è che l’inglese non si può imparare solo a scuola… «E’ chiaro che il colpevole numero uno del nostro ritardo è Cinecittà: con la costruzione dell’industria del doppiaggio abbiamo impedito agli italiani di imparare le lingue al cinema, uno dei veicoli principali dell’apprendimento dell’inglese per tutti gli altri Paesi. Questo è un luogo comune su cui tutti gli esperti concordano, ma anche qui la società non vuole farsi carico delle conseguenze».
(Dal Corriere della Sera, 13/7/2007).
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