Il Riformista, 29 ottobre 2004
INCHIESTA. THE MAKING OF A PRESIDENT
Basteranno a noi europei le buone maniere di Kerry?
DI GIULIANO AMATO
Dovremo uscire dal nostro doroteismo, anche se rivince Bush
Alla vigilia di un voto che si fa di giorno in giorno più incerto, una cosa è sicura. Se a votare fossero gli europei, John Kerry avrebbe stravinto. La spiegazione di un tale favore degli europei è facile da dare e risiede nella prevalente ostilità che c'è da noi, da un lato per la guerra in Iraq, dall'altro, e correlativamente, per l'unilateralismo con cui gli Stati Uniti stanno conducendo gli affari mondiali: due peccati che vengono entrambi attribuiti al Presidente in carica. Ma se degli umori europei sono facili da spiegare le ragioni, meno facile è capirne il significato, in presenza delle analisi che si fanno sulla relazione transatlantica e sulle cause delle sue difficoltà. Com'è noto, alla tesi secondo cui tali difficoltà sono dovute alle divergenze, per loro natura transeunti, che dipendono dalla politica dell'uno o dell'altro, se ne contrappone sempre più una diversa, secondo cui esse risalgono invece a cause strutturali, che sono venute allontanando nel tempo gli interessi e le visioni degli europei e degli americani. In presenza di questo dilemma, che cosa significa il prevalente voto europeo a favore di Kerry? Che la tesi strutturalista è sbagliata ed enfatizza divergenze destinate a venir meno con un cambio di presidenza a Washington? Oppure che noi non ci rendiamo conto della forza strutturale delle divergenze e quindi, sbagliando, ci aspettiamo da Kerry cambiamenti che neppure da lui potranno venire? I sostenitori della tesi strutturalista non negano che divergenze fra europei e americani ci fossero anche quando la relazione transatlantica era al suo meglio. Anche allora negli Stati Uniti c'era la pena di morte che noi osteggiamo, anche allora gli americani erano più propensi a sfuggire alle giurisdizioni internazionali e preferivano allargare la propria, anche allora la loro era una società più segnata dal rischio, la nostra dalle reti di protezione. E tuttavia, il comune cemento anti-nazista nella seconda guerra mondiale, il piano Marshall, la lotta comune al comune nemico comunista (una lotta di cui il cuore dell'Europa, la Germania, era il teatro), furono più che abbastanza perché le divergenze restassero nell'ombra. Dopo, diversi fattori le hanno portate in primo piano: la caduta del muro di Berlino, che ha cancellato il nemico comune e ha mutato le aspettative e le prospettive della Germania, così come ha reso meno euro-centrici gli interessi geopolitici degli Stati Uniti; lo spostamento del baricentro della politica, negli stessi Stati Uniti, dalla costa dell'Est, tradizionalmente legata all'Europa, all'Ovest e al Mid West, per i quali l'Europa è semplicemente lontana; il ricambio generazionale delle leadership politiche, segnate, su entrambe le sponde dell'Atlantico, più dal ricordo del Viet Nam che dalla comune fratellanza post-nazista. E poi, soprattutto, la svettante posizione degli Stati Uniti come unica super potenza militare rimasta, che ne determina sempre di più visioni e atteggiamenti e che, dopo l'11 settembre, ha profondamente separato i figli di Marte e i figli di Venere. In questo nuovo contesto, che cosa ci si può aspettare da Kerry, se non – e soltanto – un uso più accorto delle buone maniere nel fare in fondo le stesse cose di Bush? La tesi opposta non nega che le divergenze strutturali esistano e siano anzi cresciute. Ma intanto nota che esse, in passato, non hanno impedito un contesto cooperativo e ciò vuol dire che non sono ostacoli assoluti. Se fosse così, neppure l'alleanza atlantica sarebbe stata possibile negli anni della guerra fredda. Certo, allora gli argomenti che resero la Germania così filo-americana erano più che cogenti. Mentre oggi non esistono più e sono invece sopraggiunti forti argomenti che tirano in direzione opposta. Ma attenzione: quanto c'è di oggettivo, e quanto c'è di neo-cons nella contrapposizione fra Marte e Venere, nella raffigurazione di una Washington totalmente disinteressata alla legittimazione internazionale, insofferente delle istituzioni, attenta soltanto a gestirsi in proprio i suoi interessi vitali, di contro a un'Europa che vuole invece l'Onu, che vuole più politica e meno azione militare, che vuole combattere il terrorismo ma in primo luogo le cause del terrorismo? La radicalizzazione delle divergenze – prosegue questa tesi – è figlia non di condizioni strutturali, ma di un ideologismo neo-conservatore che è già oggi recessivo. Non a caso sono americani coloro che, contrapponendosi ai neo-conservatori, ravvisano nel loro unilateralismo la fonte di crescenti ostilità nei confronti degli Stati Uniti, con rischi accentuati per la loro sicurezza, e che vedono il ruolo legittimante delle istituzioni internazionali non come un impaccio, ma come un rafforzamento della stessa sicurezza. Su queste premesse, le buone maniere che ci si aspetta da Kerry sono destinate ad andare ben oltre il galateo e a prefigurare rapporti con l'Europa diversi anche nella sostanza: rapporti segnati da una agenda comune, nella quale ci sarebbe la lotta al terrorismo, ma ci sarebbe anche quella alle sue cause; e segnati altresì da una concertazione, che non cancellerebbe l'asimmetria dovuta al maggior potere di Washington, ma consentirebbe reciproche influenze e convergenze. Certo, Kerry non si aggregherebbe al duo franco-tedesco e pensarlo, questo sì, sarebbe davvero illusorio. L'Europa dovrebbe anzi prepararsi a chiarire le condizioni che secondo lei ammettono l'uso della forza e dovrebbe, su diversi scacchieri, uscire dal suo doroteismo: non chiudendo più gli occhi, ad esempio, sulle pecche dei palestinesi, in modo da essere più credibile nella sua stessa critica a quelle di Sharon. Ma il ruolo di partner, efficace e non subalterno, in una ravvivata relazione transatlantica lo potrebbe svolgere. E allora, il voto degli europei per Kerry è un errore di ingenuità o riflette la prospettiva di un cambiamento per loro non indolore, ma possibile? La risposta dipende da quale delle due tesi ora enunciate si rivelerà corretta e qui sono fondamentali due codicilli finali. Il primo: l'inveramento dell'una o dell'altra non risiede soltanto in condizioni oggettive, ma nella volontà politica degli attori, che pur risentendo di tali condizioni è anche in grado di piegarle ai propri disegni. Teniamone conto quando diciamo, sull'una o sull'altra sponda dell'Atlantico, che i nostri destini si sono definitivamente separati. Il secondo: se è vero – come è vero – che i neo-conservatori sono recessivi, è ben possibile che un'America meno unilaterale esca fuori anche da un secondo mandato di Bush. In tal caso si ridurrebbero di molto le ragioni che portano gli europei a preferire Kerry. Ma rimarrebbe come minimo il diverso grado di credibilità e di gradimento dei due personaggi ai fini della ripresa di collaborazione con l'Europa e dei margini, allo stesso fine, dei governi dei paesi islamici. Può sembrare poco, ma a seconda delle circostanze può risultare decisivo.
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INCHIESTA. THE MAKING OF A PRESIDENT
Basteranno a noi europei le buone maniere di Kerry?
DI GIULIANO AMATO
Dovremo uscire dal nostro doroteismo, anche se rivince Bush
Alla vigilia di un voto che si fa di giorno in giorno più incerto, una cosa è sicura. Se a votare fossero gli europei, John Kerry avrebbe stravinto. La spiegazione di un tale favore degli europei è facile da dare e risiede nella prevalente ostilità che c'è da noi, da un lato per la guerra in Iraq, dall'altro, e correlativamente, per l'unilateralismo con cui gli Stati Uniti stanno conducendo gli affari mondiali: due peccati che vengono entrambi attribuiti al Presidente in carica. Ma se degli umori europei sono facili da spiegare le ragioni, meno facile è capirne il significato, in presenza delle analisi che si fanno sulla relazione transatlantica e sulle cause delle sue difficoltà. Com'è noto, alla tesi secondo cui tali difficoltà sono dovute alle divergenze, per loro natura transeunti, che dipendono dalla politica dell'uno o dell'altro, se ne contrappone sempre più una diversa, secondo cui esse risalgono invece a cause strutturali, che sono venute allontanando nel tempo gli interessi e le visioni degli europei e degli americani. In presenza di questo dilemma, che cosa significa il prevalente voto europeo a favore di Kerry? Che la tesi strutturalista è sbagliata ed enfatizza divergenze destinate a venir meno con un cambio di presidenza a Washington? Oppure che noi non ci rendiamo conto della forza strutturale delle divergenze e quindi, sbagliando, ci aspettiamo da Kerry cambiamenti che neppure da lui potranno venire? I sostenitori della tesi strutturalista non negano che divergenze fra europei e americani ci fossero anche quando la relazione transatlantica era al suo meglio. Anche allora negli Stati Uniti c'era la pena di morte che noi osteggiamo, anche allora gli americani erano più propensi a sfuggire alle giurisdizioni internazionali e preferivano allargare la propria, anche allora la loro era una società più segnata dal rischio, la nostra dalle reti di protezione. E tuttavia, il comune cemento anti-nazista nella seconda guerra mondiale, il piano Marshall, la lotta comune al comune nemico comunista (una lotta di cui il cuore dell'Europa, la Germania, era il teatro), furono più che abbastanza perché le divergenze restassero nell'ombra. Dopo, diversi fattori le hanno portate in primo piano: la caduta del muro di Berlino, che ha cancellato il nemico comune e ha mutato le aspettative e le prospettive della Germania, così come ha reso meno euro-centrici gli interessi geopolitici degli Stati Uniti; lo spostamento del baricentro della politica, negli stessi Stati Uniti, dalla costa dell'Est, tradizionalmente legata all'Europa, all'Ovest e al Mid West, per i quali l'Europa è semplicemente lontana; il ricambio generazionale delle leadership politiche, segnate, su entrambe le sponde dell'Atlantico, più dal ricordo del Viet Nam che dalla comune fratellanza post-nazista. E poi, soprattutto, la svettante posizione degli Stati Uniti come unica super potenza militare rimasta, che ne determina sempre di più visioni e atteggiamenti e che, dopo l'11 settembre, ha profondamente separato i figli di Marte e i figli di Venere. In questo nuovo contesto, che cosa ci si può aspettare da Kerry, se non – e soltanto – un uso più accorto delle buone maniere nel fare in fondo le stesse cose di Bush? La tesi opposta non nega che le divergenze strutturali esistano e siano anzi cresciute. Ma intanto nota che esse, in passato, non hanno impedito un contesto cooperativo e ciò vuol dire che non sono ostacoli assoluti. Se fosse così, neppure l'alleanza atlantica sarebbe stata possibile negli anni della guerra fredda. Certo, allora gli argomenti che resero la Germania così filo-americana erano più che cogenti. Mentre oggi non esistono più e sono invece sopraggiunti forti argomenti che tirano in direzione opposta. Ma attenzione: quanto c'è di oggettivo, e quanto c'è di neo-cons nella contrapposizione fra Marte e Venere, nella raffigurazione di una Washington totalmente disinteressata alla legittimazione internazionale, insofferente delle istituzioni, attenta soltanto a gestirsi in proprio i suoi interessi vitali, di contro a un'Europa che vuole invece l'Onu, che vuole più politica e meno azione militare, che vuole combattere il terrorismo ma in primo luogo le cause del terrorismo? La radicalizzazione delle divergenze – prosegue questa tesi – è figlia non di condizioni strutturali, ma di un ideologismo neo-conservatore che è già oggi recessivo. Non a caso sono americani coloro che, contrapponendosi ai neo-conservatori, ravvisano nel loro unilateralismo la fonte di crescenti ostilità nei confronti degli Stati Uniti, con rischi accentuati per la loro sicurezza, e che vedono il ruolo legittimante delle istituzioni internazionali non come un impaccio, ma come un rafforzamento della stessa sicurezza. Su queste premesse, le buone maniere che ci si aspetta da Kerry sono destinate ad andare ben oltre il galateo e a prefigurare rapporti con l'Europa diversi anche nella sostanza: rapporti segnati da una agenda comune, nella quale ci sarebbe la lotta al terrorismo, ma ci sarebbe anche quella alle sue cause; e segnati altresì da una concertazione, che non cancellerebbe l'asimmetria dovuta al maggior potere di Washington, ma consentirebbe reciproche influenze e convergenze. Certo, Kerry non si aggregherebbe al duo franco-tedesco e pensarlo, questo sì, sarebbe davvero illusorio. L'Europa dovrebbe anzi prepararsi a chiarire le condizioni che secondo lei ammettono l'uso della forza e dovrebbe, su diversi scacchieri, uscire dal suo doroteismo: non chiudendo più gli occhi, ad esempio, sulle pecche dei palestinesi, in modo da essere più credibile nella sua stessa critica a quelle di Sharon. Ma il ruolo di partner, efficace e non subalterno, in una ravvivata relazione transatlantica lo potrebbe svolgere. E allora, il voto degli europei per Kerry è un errore di ingenuità o riflette la prospettiva di un cambiamento per loro non indolore, ma possibile? La risposta dipende da quale delle due tesi ora enunciate si rivelerà corretta e qui sono fondamentali due codicilli finali. Il primo: l'inveramento dell'una o dell'altra non risiede soltanto in condizioni oggettive, ma nella volontà politica degli attori, che pur risentendo di tali condizioni è anche in grado di piegarle ai propri disegni. Teniamone conto quando diciamo, sull'una o sull'altra sponda dell'Atlantico, che i nostri destini si sono definitivamente separati. Il secondo: se è vero – come è vero – che i neo-conservatori sono recessivi, è ben possibile che un'America meno unilaterale esca fuori anche da un secondo mandato di Bush. In tal caso si ridurrebbero di molto le ragioni che portano gli europei a preferire Kerry. Ma rimarrebbe come minimo il diverso grado di credibilità e di gradimento dei due personaggi ai fini della ripresa di collaborazione con l'Europa e dei margini, allo stesso fine, dei governi dei paesi islamici. Può sembrare poco, ma a seconda delle circostanze può risultare decisivo.