Il tedesco per la carriera

«Il tedesco? Uno slancio alla carriera»

L’autore del Zanichelli-Langenscheidt per l’economia: un’azienda su tre premia chi lo parla

di Elena Comelli

Import-export, banche, turismo. «Sono questi i settori principali in cui la conoscenza del tedesco dà una marcia in più, oltre naturalmente alle multinazionali della chimica, dell’elettronica e della meccanica made in Germany, dove parlare in tedesco con la casa madre può dare notevoli vantaggi negli avanzamenti di carriera». Piergiulio Taino, docente di tedesco alla Statale di Milano, vede migliaia di ragazzi passare nelle sue aule, nel corso di laurea in Mediazione linguistica, per avere questa marcia in più. E ha constatato come circa un terzo delle imprese consideri la conoscenza del tedesco un titolo di merito preferenziale nei colloqui di assunzione. Allora lo strapotere dell’inglese non ha del tutto spazzato via le altre lingue? «Un buon inglese ormai viene dato quasi per scontato. Non costituisce più un vantaggio competitivo, ma una condizione necessaria. La conoscenza del tedesco invece in un colloquio d’assunzione impressiona molto, perché dimostra una capacità di approfondimento e un’apertura internazionale che vanno oltre gli standard». Insomma, chi si presenta sfoggiando un buon tedesco in generale fa una bella figura. Ma dov’è che davvero non se ne può fare a meno? «Non dimentichiamo che la Germania è il nostro primo partner commerciale: nell’area dell’import-export e negli istituti di credito più impegnati su quel fronte, senza il tedesco non si va da nessuna parte. Per non parlare del turismo, evidentemente, dove i tedeschi sono molto presenti, soprattutto in certe aree costiere». E a livello di management? «Naturalmente per arrivare ai piani alti delle filiali italiane di aziende tedesche è necessaria una buona conoscenza della lingua. Diversi top manager italiani, come Franco Tatò, sono arrivati in alto dopo aver fatto carriera in un’azienda tedesca. E lì non si scherza, non basta una conoscenza superficiale, che si sgretola alla prima difficoltà». Il guaio è che gli italiani spesso credono di conoscere le lingue, ma alla prova dei fatti non le sanno davvero. Magari masticano qualche parola, ma quando si tratta di sostenere una conversazione approfondita restano al palo… «Non siamo certamente un popolo di poliglotti. Basti pensare che del mio dizionario “Il Tedesco nell’Economia”, pubblicato in Italia da Zanichelli e in Germania da Langenscheidt, sono state vendute molte più copie in Germania che in Italia. Ma mentre la Germania è la locomotiva economica d’Europa, in Italia i tedeschi ci vengono perlopiù per trascorrere le vacanze. Quindi dovrebbe essere più importante per noi approfondire il tedesco economico, piuttosto che l’italiano economico per loro. E invece succede il contrario. Si tratta evidentemente di una differenza culturale: i tedeschi studiano le lingue più in profondità rispetto agli italiani». Nei suoi corsi lei insegna il linguaggio dei mercati finanziari, della contrattualistica, della fiscalità. Chi viene a imparare queste cose? «Quando si parla di contratti e bisogna scendere nei particolari, non si contano i casi in cui un affare non va in porto proprio per l’ignoranza nella lingua del partner. Fra i miei studenti ci sono molti lavoratori, che ritornano a studiare dopo essere usciti da facoltà scientifiche o da Economia, quando si rendono conto che manca qualcosa d’importante alle loro conoscenze. Anche per chi ha compiuto studi storici, filosofici o archeologia, se vuole andare in profondità, la conoscenza del tedesco diventa indispensabile». Quali sono le altre lingue, oltre l’inglese, che insidiano lo studio del tedesco? «C’è molto interesse per lo spagnolo, direi quasi prevalente ormai sul tedesco. Da un lato è più facile per gli italiani, dall’altro attrae per la sua vasta diffusione e per l’estremo dinamismo dell’economia iberica. Ma avanza rapidamente anche il cinese, che qui a Mediazione linguistica si sta attestando come quarta lingua: un fenomeno che va di pari passo con la crescente delocalizzazione delle imprese manifatturiere verso Oriente».

(Dal Corriere della Sera, 8/6/2007).

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