16/10/2009 (7:23) –
L’utopista che voleva
dimenticare Babele
L’Esperanto in un disegno di Matteo Pericoli
La vita dell’ebreo Zamenhof, inventore dell’Esperanto
ELENA LOEWENTHAL
Certo che, partendo di lassù, dev’essere stato più facile. A ogni modo, onore al merito: l’esperanto è arrivato più lontano di qualunque altra lingua al mondo. Ben oltre la nostra modesta gittata, due piccoli asteroidi che ruotano fra le orbite di Marte e Giove sono stati «battezzati» con il nome di questa lingua e del suo inventore, negli anni 1936 e 1938. Non si può peraltro nascondere l’evidenza che da lassù donde l’esperanto è partito, cioè da in cima alla torre di Babele, la strada era più breve che da qualunque altro angolo della nostra confusa e poliglotta terra.
Per Ludwik Zamenhof, infatti, il mito biblico dell’arroganza umana che ha per castigo la confusione delle lingue, è il nemico da combattere, il pregiudizio da smontare – un po’ come ha fatto l’Eterno riducendo in un ammasso di detriti quell’umana velleità. Zamenhof sapeva bene che da che mondo è mondo gli uomini parlano lingue diverse e che l’idioma universale è un sogno e non un ritorno alle origini, un’utopia e non un’adesione allo stato naturale delle cose. E così, la creatura da lui costruita pezzo per pezzo, porta un nome che è tutto un programma: Esperanto, in esperanto, significa «uomo che spera». Questa lingua carica di aspettative è nata precisamente il 26 luglio 1887, a Varsavia. Suo padre è Ludwig Zamenhof, un oftalmologo ebreo polacco di vastissima cultura e pari curiosità intellettuale. Zamenhof era poliglotta – parlava tedesco, russo, polacco, yiddish e conosceva bene le lingue classiche. Praticava una forma di umanesimo molto personale, che chiamava «hillelismo», dal nome di un antico maestro della tradizione ebraica: non era contrario al monoteismo purché fosse cosmopolita. E aveva deciso che la pluralità delle lingue limitava le capacità di comunicazione dell’umanità.
L’esperanto si fonda su tre presupposti: deve essere facile da imparare, ma anche da usare correntemente. Zamenhof attinge a diversi patrimoni linguistici, studia le grammatiche, trova soluzioni razionali, immediate, condivisibili. L’esperanto lo possono imparare tutti, perché nessun se ne sente del tutto estraneo, qualunque sia la sua lingua madre. E qui si arriva al terzo punto di questa formidabile invenzione: convincere il mondo che essa è non soltanto utile, persino indispensabile.
Questa storia affascinante ci viene ora narrata per voce – in esperanto -, del nipote Louis Christophe Zaleski-Zamenhof, nato a Varsavia nel 1925, in una lunga conversazione con Roman Dobrzynski (Via Zamenhof, creatore dell’esperanto, Giuntina editrice, pp. 279, € 15). Anche Roman ha molto da raccontare, sulla guerra, il ghetto di Varsavia, lo sterminio, la resistenza, la propria vita avventurosa. È una famiglia strabiliante, la sua. Ma tutto ruota intorno al nonno e alla sua lingua. Se i primi due propositi si realizzano in un corpus «logico e trasparente» dalla grammatica semplice, quasi geometrica, l’obiettivo di diffondere questa lingua è ancora in sospeso. Senza scomodare gli asteroidi lassù, non si può negare che l’esperanto sia ancora ben lungi dal traguardo. È vero che così come nello spazio interstellare, essa si trova bene pure in quello della rete: più di cinquanta milioni di siti lo menzionano. E molti sono gli appassionati, le associazioni, le occasioni di incontro intorno a questa lingua, per i suoi adepti sparsi ai quattro angoli del mondo. Ma l’esperanto è tutto, fuorché una lingua comune. Provate a viaggiare con questo bagaglio da comunicazione: difficile pensare di arrivare lontano (asteroidi esclusi).
Zamenhof era una mente brillante, anzi geniale. Ma forse con i piedi poco per terra, e certo non dotato di grande ispirazione profetica. L’esperanto resta, come dire, di nicchia. È una lingua che può entusiasmare, divertire, interessare, ma che ha ancora da conquistare una sua normalità, quale strumento capace di abbassare e demolire barriere. Pensare che quelle non mancano. Più che mai in questo presente in cui il pluralismo linguistico diventa a volte un vanto difficile da sostenere. Fra dialetti alla ribalta e scontri di civiltà, in quest’era della comunicazione globale capita non di rado di perdersi qualcosa per strada. E allora forse, accantonata l’irraggiungibile ambizione di diventare una lingua franca, universale e magari pure unica, l’esperanto potrebbe servire ogni tanto come cartina di tornasole. Una specie di monito per chi vorrebbe invece moltiplicare ancora quella confusione delle lingue nata sulle ceneri fumanti della torre di Babele. Uno di quei ponti di fortuna, insomma, che si montano all’occorrenza quando la distanza pare insormontabile. Senza bisogno di sudare sulla sua (per quanto semplice) grammatica, sapere che l’esperanto esiste è tutto sommato una piacevole certezza, o quanto meno una speranza sorridente
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