Corriere della Sera, 7.10.04
EUROPA
Primo sì alla Turchia con freno d'emergenza
di FRANCO VENTURINI
Stretta tra la paura di destabilizzare la Turchia e quella di destabilizzare
l'Europa, la Commissione di Bruxelles ha scelto una raccomandazione
grondante di «se» e di «ma» per l'apertura con Ankara dei negoziati di
adesione. Ai capi di Stato e di governo che prenderanno in dicembre la
decisione finale viene recapitata la testimonianza di un tormento ancora non
risolto.
Un tormento dove ai vantaggi strategici dell'ingresso turco fanno da
contraltare insidie settoriali tanto gravi da consigliare all'Unione di non
bruciarsi i ponti alle spalle.
Alla Commissione guidata da Prodi non è certo sfuggita l'esigenza
attualissima di affermare la conciliabilità tra Islam e democrazia, e di
lanciare così un segnale avverso allo «scontro di civiltà». Ma le riforme
intraprese dal governo di Ankara hanno spesso una attuazione carente o non
ancora irreversibile, ed ecco allora che Bruxelles deroga da tutti gli
allargamenti precedenti e si lascia a disposizione qualche poderoso freno di
emergenza: il negoziato durerà 10-15 anni, non avrà un esito garantito e
potrà essere interrotto in qualsiasi momento se l'evoluzione democratica
della Turchia dovesse subire una battuta d'arresto. Non solo, si dovrà
pensare a una «clausola permanente di salvaguardia» se il flusso migratorio
proveniente dal nuovo socio dovesse rivelarsi eccessivo.
Quel che la raccomandazione non dice e non poteva dire, è che le vie di fuga
lasciate aperte derivano in realtà dalle dimensioni della Turchia, dal suo
tasso di crescita demografica, dai suoi confini con i focolai di crisi
iracheno e iraniano, dalla sua economia in gran parte agricola, e per alcuni
dai sospetti che ancora gravano sul moderatismo del suo governo islamico.
Sono questi, assai più dello stato delle riforme di Ankara, gli elementi che
in tutti i Paesi europei fanno sì che la maggioranza si pronunci contro
l'adesione. E sono sempre questi i motivi che preoccupano e dividono i
governi comunitari: perché esiste il rischio che la Turchia si riveli per
l'Unione un boccone troppo grosso, tale da pregiudicare la sua identità e le
sue ambizioni.
Sarà sufficiente a calmare le apprensioni europee, allora, il paracadute
aperto dalla Commissione con la clausola sospensiva dei negoziati di
adesione?
Salvo imprevedibili colpi di scena (dovrebbe esserci una rivoluzione, ha
detto Erdogan) la risposta è no. La trattativa potrà allungarsi in presenza
di problemi irrisolti, ma è difficile immaginare che gli europei, dopo aver
detto «avanti» pur senza entusiasmo, si trovino d'accordo per risospingere
la Turchia nella sala d'attesa che la ospita da decenni.
Piuttosto, è ragionevole prevedere che un giorno Ankara farà il suo ingresso
in una Europa diversa da quella di oggi, dove le «avanguardie» e le
«cooperazioni rafforzate» avranno creato nei fatti due Unioni diverse: una
più integrata e più presente sulla scena internazionale, l'altra più simile
a una zona di libero scambio dalle ambizioni ridotte. Tra l'una e l'altra,
sarà soprattutto la Turchia a dover scegliere negli anni a venire.
Sempre che non si materializzi quello che per la lunga marcia di Ankara
rimane in prospettiva l'ostacolo più formidabile: la scelta di consultare le
opinioni pubbliche europee prima di ratificare la nuova adesione. In Francia
il presidente Chirac si è già detto favorevole al referendum, è probabile
che la Germania segua il suo esempio soprattutto se al potere saranno i
cristiano-democratici, e non mancheranno altri imitatori tra gli scettici di
oggi. Per superare la prova, la Turchia dovrebbe capovolgere a suo favore le
indicazioni fornite di questi tempi dai sondaggi d'opinione.
Non sarà una impresa facile, e di questo gli europei si rendono
perfettamente conto inquieti come sono sulla ben più vicina ratifica del
loro Trattato costituzionale.
[addsig]
EUROPA
Primo sì alla Turchia con freno d'emergenza
di FRANCO VENTURINI
Stretta tra la paura di destabilizzare la Turchia e quella di destabilizzare
l'Europa, la Commissione di Bruxelles ha scelto una raccomandazione
grondante di «se» e di «ma» per l'apertura con Ankara dei negoziati di
adesione. Ai capi di Stato e di governo che prenderanno in dicembre la
decisione finale viene recapitata la testimonianza di un tormento ancora non
risolto.
Un tormento dove ai vantaggi strategici dell'ingresso turco fanno da
contraltare insidie settoriali tanto gravi da consigliare all'Unione di non
bruciarsi i ponti alle spalle.
Alla Commissione guidata da Prodi non è certo sfuggita l'esigenza
attualissima di affermare la conciliabilità tra Islam e democrazia, e di
lanciare così un segnale avverso allo «scontro di civiltà». Ma le riforme
intraprese dal governo di Ankara hanno spesso una attuazione carente o non
ancora irreversibile, ed ecco allora che Bruxelles deroga da tutti gli
allargamenti precedenti e si lascia a disposizione qualche poderoso freno di
emergenza: il negoziato durerà 10-15 anni, non avrà un esito garantito e
potrà essere interrotto in qualsiasi momento se l'evoluzione democratica
della Turchia dovesse subire una battuta d'arresto. Non solo, si dovrà
pensare a una «clausola permanente di salvaguardia» se il flusso migratorio
proveniente dal nuovo socio dovesse rivelarsi eccessivo.
Quel che la raccomandazione non dice e non poteva dire, è che le vie di fuga
lasciate aperte derivano in realtà dalle dimensioni della Turchia, dal suo
tasso di crescita demografica, dai suoi confini con i focolai di crisi
iracheno e iraniano, dalla sua economia in gran parte agricola, e per alcuni
dai sospetti che ancora gravano sul moderatismo del suo governo islamico.
Sono questi, assai più dello stato delle riforme di Ankara, gli elementi che
in tutti i Paesi europei fanno sì che la maggioranza si pronunci contro
l'adesione. E sono sempre questi i motivi che preoccupano e dividono i
governi comunitari: perché esiste il rischio che la Turchia si riveli per
l'Unione un boccone troppo grosso, tale da pregiudicare la sua identità e le
sue ambizioni.
Sarà sufficiente a calmare le apprensioni europee, allora, il paracadute
aperto dalla Commissione con la clausola sospensiva dei negoziati di
adesione?
Salvo imprevedibili colpi di scena (dovrebbe esserci una rivoluzione, ha
detto Erdogan) la risposta è no. La trattativa potrà allungarsi in presenza
di problemi irrisolti, ma è difficile immaginare che gli europei, dopo aver
detto «avanti» pur senza entusiasmo, si trovino d'accordo per risospingere
la Turchia nella sala d'attesa che la ospita da decenni.
Piuttosto, è ragionevole prevedere che un giorno Ankara farà il suo ingresso
in una Europa diversa da quella di oggi, dove le «avanguardie» e le
«cooperazioni rafforzate» avranno creato nei fatti due Unioni diverse: una
più integrata e più presente sulla scena internazionale, l'altra più simile
a una zona di libero scambio dalle ambizioni ridotte. Tra l'una e l'altra,
sarà soprattutto la Turchia a dover scegliere negli anni a venire.
Sempre che non si materializzi quello che per la lunga marcia di Ankara
rimane in prospettiva l'ostacolo più formidabile: la scelta di consultare le
opinioni pubbliche europee prima di ratificare la nuova adesione. In Francia
il presidente Chirac si è già detto favorevole al referendum, è probabile
che la Germania segua il suo esempio soprattutto se al potere saranno i
cristiano-democratici, e non mancheranno altri imitatori tra gli scettici di
oggi. Per superare la prova, la Turchia dovrebbe capovolgere a suo favore le
indicazioni fornite di questi tempi dai sondaggi d'opinione.
Non sarà una impresa facile, e di questo gli europei si rendono
perfettamente conto inquieti come sono sulla ben più vicina ratifica del
loro Trattato costituzionale.