Il Presidente della Crusca: l’inglese non diventi l’assassino della lingua italiana

L’inglese è sempre un vantaggio?

Lo parla un quarto degli abitanti della Terra, è la lingua degli affari e della scienza, ma tanto successo potrebbe rendere più difficile capirsi. Lo spiega una studiosa bilingue da sempre

Se potessimo origliare, grazie a una macchina del tempo, i discorsi di Cesare e di Cleopatra, sentiremmo i due innamorati sussurrarsi “filò se”, nella lingua che allora andava per la maggiore nell’area mediterranea: il greco ellenistico. Oggi due persone di nazionalità diversa come loro direbbero “I love you”. Archiviato il greco e tramontati il latino o il persiano, l’inglese si è imposto come la lingua più parlata al modo, battendo il cinese: 1,5 miliardi di persone su una popolazione globale di 7,7 sono in grado di usare la lingua dei Beatles e di Woody Allen come secondo idioma, mentre gli anglofoni nativi si aggirano intorno ai 400 milioni. Insomma, è sempre meno la lingua dei britannici, degli australiani o degli americani, ma uno strumento che appartiene a tutti e che consente a un cinese e a un africano, per esempio, di comunicare con facilità. È quella che gli addetti ai lavori definiscono una lingua franca.

La grammatica c’entra poco
Quali caratteristiche deve avere una lingua per ottenere un successo planetario? Si potrebbe azzardare che l’inglese, almeno dal punto di vista grammaticale, sia più facile del russo o dell’arabo. Vero, ma le difficoltà non mancano. «Non è una lingua fonetica, spesso c’è poca corrispondenza fra lo scritto e il parlato. E ciò lo rende complicato». A parlare è Rosemary Salomone, avvocatessa, linguista e docente alla St. John’s University School of Law negli Stati Uniti, autrice del libro The Rise of English (L’ascesa dell`inglese, edito da Oxford University Press), un’opera fondamentale per comprendere i risvolti politici, economici e sociali di questo fenomeno. La studiosa è convinta che la chiave di lettura sia un’altra. «È una questione politica ed economica» spiega. «Tutto è iniziato con l’Impero britannico che, al suo apogeo, si estendeva su un quarto del mondo. Quando ha iniziato a disintegrarsi, mentre l`Europa si riprendeva dalla devastazione della guerra gli Stati Uniti si sono affermati come leader mondiale, diffondendo la loro cultura e la loro lingua attraverso i film, la televisione, i media. Poi intemet è andato oltre».

La lingua degli studiosi
Le scuole di inglese sono diventate un affare planetario. In vari Paesi, Italia inclusa, i bambini incominciano lo studio di questa lingua all`età di sei anni. Il programma Intercultura, che consente agli adolescenti di trascorrere un anno all’estero imparando anche la lingua e la cultura del luogo, non richiede l’inglese, però è un requisito nei Paesi anglofoni e dove ci sono scuole bilingue, e come idioma passepartout è d’aiuto. All’università, invece, Erasmus ha contribuito a espandere l’uso dell’inglese per favorire gli scambi internazionali. Molti atenei in Paesi non anglofoni hanno introdotto corsi in inglese. «L’obiettivo è preparare gli studenti al mercato globale, attirare allievi stranieri per accrescere le entrate, migliorare il posizionamento nelle classifiche internazionali delle università, dove la presenza di studenti dall’estero conta» dice Salomone.

Pensare tutti allo stesso modo
L’onnipresenza dell`inglese è così vantaggiosa? «La convivenza fra due lingue implica un equilibrio da perseguire con attenzione» mette in guardia Claudio Marazzini, storico della lingua italiana e presidente dell’Accademia della Crusca. «L’inglese non deve diventare l’assassino dell’italiano». Può sembrare paradossale, ma non lo è: anche le lingue muoiono, ogni due settimane sparisce una delle circa 6800 lingue del pianeta. «È innegabile che la diffusione dell’inglese pesi sulle lingue minoritarie» commenta Salomone. «Fra l`istruzione in inglese e quella nella lingua locale, i genitori scelgono sempre la prima. Anche se è ampiamente dimostrato che i bambini imparano meglio in una lingua che capiscono. E pure se la scuola privata in inglese a basso costo offre una qualità di insegnamento inferiore, come avviene in India e in Africa».
Parlare nella propria madrelingua fa la differenza. «E un privilegio esprimersi con la naturalezza, la ricchezza, la creatività che si hanno in una lingua conosciuta perfettamente» dice Marazzini. A difesa della biodiversità linguistica, prende posizione anche Patricia Ryan, docente di inglese nei Paesi del Golfo per oltre trent’anni, che in un suo Ted Talk ha sottolineato i costi proibitivi dei test di inglese, che discriminano l’accesso all’istruzione ai più poveri e praticamente affidano agli insegnanti di lingue la chiave d’ingresso alle facoltà universitarie, rischiando di lasciare fuori un genio perché non parla l’inglese. Non solo: la pluralità linguistica è ricchezza. «Se si usa un’unica lingua, il pensiero si può bloccare su una questione che diventa superabile, magari, ragionando in un idioma differente» spiega Ryan.
E poi, come osserva Marazzini, se si deve competere solo in inglese, per quanto bene lo si conosca, è evidente che il madrelingua britannico o americano sarà favorito. Lo studente o il ricercatore straniero rischiano sempre di sembrare meno preparati, soltanto per la minore dimestichezza con la lingua.

Eccessi dl zelo
La spinta a privilegiare l’inglese ha portato il Politecnico di Milano al centro di una lunga diatriba. Nel 2012 l’ateneo decide che i corsi per le lauree magistrali e i dottorati per ingegneri e architetti devono svolgersi solo in inglese. Ne deriva una battaglia legale a colpi alterni, in cui sono coinvolti Tar, Corte Costituzionale e Consiglio di Stato, che nel 2017 ha riconosciuto la libertà d’insegnamento in inglese, purché affiancato da un numero adeguato di corsi in italiano, il cui numero resta a discrezione dell’ateneo. Attualmente al Politecnico i corsi di dottorato sono tutti in inglese, mentre dei 48 corsi della magistrale 35 sono solo in inglese, 4 solo in italiano e 9 in entrambe le lingue. Marazzini rimane critico: «La nostra classe dirigente non ha capito come dovrebbe essere il rapporto fra italiano e inglese, che dovrebbe affiancare e non sostituire la nostra lingua. Eppure, il bando ministeriale per il Fondo Italiano per la Scienza (del 2021, ndr) chiede di presentare le domande solo in inglese, e a eventuali colloqui è bandito l’italiano. Capirei in presenza di commissari stranieri, ma altrimenti perché non usare la nostra lingua?». Lo stesso scenario si ripete nel mondo delle pubblicazioni degli studiosi. «L`Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (Anvur) considera superiori quelle in inglese, senza tenere conto che in materie come la letteratura o la filosofia è una forzatura».
Insomma, se ‘`inglese è la lingua naturale di materie come l`informatica, lo è meno in altri ambiti. Se ne sono accorti anche altri Paesi. «Danimarca, Norvegia, Svezia e Olanda hanno un alto livello di conoscenza dell`inglese e sono state fra le prime a proporre agli studenti universitari programmi in inglese» sottolinea Salomone. «Ma ora si stanno domandando se l’internazionalizzazione non sia stata eccessiva, a spese della lingua nazionale e della qualità dell’istruzione per gli studenti locali. Quanto alla Francia, da sempre difende la sua lingua nazionale. Nel 2013 c stato uno scontro nel mondo della cultura su una legge per allentare le restrizioni al’’insegnamento universitario non in francese».

L’Illusione degli anglofoni
Anche se qualcuno sta facendo marcia indietro, apparentemente i madrelingua anglofoni vivono una situazione privilegiata. Sono avvantaggiati nello studio, nel lavoro e persino nei viaggi. Rosemary Salomone, che parla altre tre lingue oltre all`inglese, la pensa diversamente. Nel suo libro racconta che solo il 20 per cento della popolazione negli Stati Uniti è capace di parlare un’altra lingua. «Gli anglofoni si sono lasciati cullare dall’illusione che non fosse necessario conoscere altre lingue, vista la diffusione della loro» commenta. «Ma non è così: solo un quarto della popolazione mondiale ha una conoscenza minima dell’inglese. Pertanto, con i rimanenti tre quarti possono comunicare solo attraverso un interprete, e non possono attingere al sapere e alle opportunità di carriera che richiedono competenze linguistiche e interculturali. Lo dico anche ai miei studenti di Legge: rischiate di avere il mondo che parla senza che lo capiate, ritrovandovi culturalmente e politicamente isolati. Leggere o ascoltare l’attualità mondiale attraverso i media in un’altra lingua allarga gli orizzonti, aiuta a capire come le persone di altri Paesi interpretano gli sviluppi politici negli Usa e come valutano le risposte americane alle questioni globali, come ora nella guerra in Ucraina»

Maria Tatsos | Io Donna (Corriere della Sera) | 4.6.2022

 

 

 

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