Dobbiamo rendere i giusti onori a Raffaele Baldini, che a da poco compiuto gli ottant’anni ed è stato festeggiato a Milano da un gruppo di critici e poeti tra i quali Dante Isella e Clelia Martignoni. Dobbiamo rendergli onore per la bravura e l’umanità delle sue poesie in dialetto romagnolo, racconti o monologhi in versi in cui la realtà, pur nella sua inesorabile, sordida concretezza, tende regolarmente a sfumare nell’assurdo. I poeti dialettali, oggi, sono molti, ma con Tonino Guerra e Franco Loi, proprio Baldini è uno dei tre migliori, dei caposcuola, dei grandi. In lui il dialetto non è una scelta letteraria, ma una necessità. Perché dialettali, potremmo dire, sono i suoi personaggi, gente che in quella lingua e solo in quella può plausibilmente esprimersi e dare conto di situazioni sempre in bilico tra ordinaria quotidianità e follia…il suo tardivo esordio, [avvene] nel ’76, quando aveva già passato la cinquantina, e pubblicò “E’ solitari” con una piccola casa editrice, Galeati, di Imola. Ma non ci volle molto perché chi capisce di poesia si rendesse conto di aver a che fare con qualcosa di assolutamente fresco e nuovo, con un poeta che scriveva in dialetto racconti in versi con venature beckettiane, sempre originalissimi. Baldini si manifestò subito come l’inventore di un modo di far poesia inconfondibile e fortemente comunicativo, anche per chi non capisce il romagnolo. E’ tale, infatti, la forza dei suoi testi che il residuo che ne abbiamo nelle traduzioni (d’autore) è sempre notevolissimo…
(Da “Il gatto di Baldini”, di Maurizio Cucchi, La Nazione, 31,1, 2005).
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