Il futuro dell’Unione


IL FUTURO DELL'UNIONE


«Com’era l'Europa cinque anni fa? Com'è cambiata l'Unione nella legislatura che è trascorsa?» Per dare un voto riflessivo, l'elettore di domenica dovrebbe cominciare da queste domande. Domande su un bilancio europeo: ora che stanno per scadere sia il Parlamento sia la Commissione europea presieduta da Romano Prodi, le istituzioni più direttamente responsabili, rispetto agli elettori, di quel bilancio.
C'è una prima risposta, un po' all'ingrosso, un pò trionfalistica: cinque anni fa non c'era in circolazione l'euro; non c'erano i l0 Paesi che conferiscono all'Europa la” massa critica” continentale; non c'era neppure l'idea di quella Costituzione europea che (forse) entro il mese vedrà la luce.
Eventi davvero epocali, certamente. E tuttavia il loro elenco non soddisfa chi sa che la storia vera della costruzione europea non è mai stata una storia di grandi eventi. Questi si sono posti semmai come culmine naturale e riassunto simbolico di una trama fitta di rapporti minuti, intessuta dalla mano invisibile di una integrazione che progredisce per piccoli passi e lunghe pazienze, per riconoscimenti reciproci e accumulo silenzioso di continue acquisizioni giuridiche. Le cose, insomma, che hanno cambiato la vita quotidiana degli europei e la stessa fisionomia istituzionale dell'Unione, prima di ogni formale proclamazione.
E, allora, per capire com'è mutata in questi cinque anni l'Unione, bisogna interrogare questo suo corpo denso e guardare a tre punti che possono mostrare l'intensità vera delle riforme in esso intervenute. I “suoi” diritti. Il “suo” modello sociale ed economico. La “sua” identità politica.
I diritti, innanzitutto. Cinque anni fa, i diritti degli europei si riducevano quasi del tutto ai loro diritti “nazionali”. Diritti cioè fondati esclusivamente sulle singole costituzioni degli Stati membri. Certo, esisteva già un nucleo minimo di cittadinanza europea e, da tempo, la talpa della Corte di giustizia europea scavava sotto i diritti “mercantili” (i 4 diritti di libera circolazione) per cercare, nelle loro radici, basi comuni per gli altri diritti civili e politici.
In questi cinque anni, la situazione si è capovolta.Ora si dice solennemente (per la prima volta a Colonia nel giugno 1999) che la «tutela dei diritti fondamentali – non solo dei diritti mercantili, dunque – costituisce un principio fondatore dell'Unione europea» anzi: «il presupposto indispensabile della sua legittimità». Si sono succedute, perciò, una serie di decisioni-quadro, che danno concretezza e sostanza ad uno «spazio di libertà, di sicurezza, di cooperazione giudiziaria». Ora i diritti dei cittadini europei sono progressivamente inseriti in una cornice di procedure di sicurezza, basate sul riconoscimento reciproco delle decisioni giudiziarie dei Paesi membri (il «mandato di cattura europeo» per i grandi reati è solo la più nota di queste procedure). Nasce nel febbraio 2002 “Eurojust” per rafforzare la cooperazione tra le autorità giudiziarie nazionali, responsabili dell'azione penale. È una rivoluzione nella rivoluzione: finora la cultura «dei delitti e delle pene» era stata ritenuta di esclusiva competenza nazionale.
Ma, naturalmente, il punto più alto di questo passaggio dall'Europa dei mercati all'Europa dei diritti è nella proclamazione a Nizza (dicembre 2000) della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. Per la prima volta una regione multistatale, con origini e fini apparentemente di pura natura economica, esibisce al mondo intero una carta d'identità fondata su diritti e valori: validi non solo per i suoi cittadini ma per tutti quelli che si trovano sul suo territorio. Le incertezze tecniche sull'efficacia di certe parti della Carta (di cui ancora si discute dopo il suo inserimento nel progetto di Costituzione europea) non intaccano neppure per un po' la centralità che ora la garanzia dei diritti ha assunto nella fisionomia e nella stessa forza propulsiva dell'Unione.
Il modello economico e sociale. L'euro entra in circolazione il l°gennaio 2002. Ma già nel marzo 2000 a Lisbona l'Unione aveva trovato una nuova via di coordinamento economico e sociale. È la “strategia di Lisbona”: il tentativo di cercare interdipendenze ed emulazioni tra i “sistemi Paese” per un programma ambizioso di sviluppo, su 117 “indicatori”, in aperta competizione con gli Stati Uniti. Con esso l'Unione non allarga le sue competenze: ma stabilisce standard; indica le esperienze che hanno dato migliori risultati tra gli Stati membri; segna i tempi. Quella di Lisbona, cinque anni dopo, appare certo una procedura troppo debole per dare una «scossa» all'appannata economia europea. Eppure da qui si deve partire per affiancare all'indipendenza della Banca centrale una visibile politica economica che concili obiettivi europei e politiche nazionali di bilancio. Quando (perfino) gli inglesi vogliono introdurre nella Commissione una figura forte di vice-presidente – per coordinare gli affari economici e finanziari, la concorrenza, il mercato interno – indicano come parametro, insospettabile di dirigismo, proprio la strategia di Lisbona.
Tuttavia, se si vuole trovare il segno più marcato che, nella legislatura trascorsa, caratterizza l'evoluzione del modello economico europeo, lo si deve trovare probabilmente nella modernizzazione della politica della concorrenza. Il serrato confronto con il modello americano portato avanti dal commissario Mario Montiha condotto ad una specie di regime comune mondiale delle politiche antitrust. I due approcci tradizionalmente opposti (tutela dei consumatori o tutela delle piccole imprese?) hanno visto una loro pragmatica composizione in cui l'attenzione europea alle imprese medio-piccole ha trovato riconoscimento.
Se poi si guarda al modello sociale europeo, il simbolo più netto della sua evoluzione è nella nuova concezione che sta prevalendo peri “servizi pubblici”. Oragli aiuti di Stato, un tempo sospettatissimi, sono ammessi purché servano a tutelare la generalità del servizio pubblico e purché sia garantito un certo grado di concorrenza. Quello insomma che, per la prima volta, è apparso chiaro nella impostazione della Commissione Prodi è che il libero mercato da solo non può rispondere ai bisogni dei cittadini, specie dei più deboli fra essi.
La identità politica, infine. «Quante divisioni ha l'Europa?» si sono chiesti (con la stessa cecità di Stalin per il Papa) i neoconservatori di Bush. Ora che si sono dovuti allineare sulle vecchie richieste di multilateralismo della «vecchia Europa» forse si sono accorti di quanto sia cresciuta l'«Europa potenza civile» (per citare il bel libro di Mario Telò). E questo proprio per la sua capacità di equilibrare diritti delle persone e diritto internazionale. La questione irachena, purtroppo, non è ancora conclusa sul terreno. È però rientrato l'assurdo scisma tra gli europei: ora tutti allineati sulla risoluzione dell'Onu. Quello scisma ha pesato sulle possibilità dell'Unione di esprimersi con una sola voce a livello mondiale, ha inciso sulla pace e sulla guerra, ha gettato un'ombra sulle relazioni con gli Stati Uniti. Proprio per questo è ora avvertita con chiarezza, per contrasto, le necessità di un'Europa, attore di moderazione e di coerenza sulla scena internazionale, alleato coprotagonista della relazione transatlantica.«Mai più lettere degli 8», insomma, se gli europei vorranno contare qualcosa.
Unione protagonista non imbelle, però. Gli sviluppi in questi ultimi anni di una cooperazione di difesa europea, in qualche misura autonoma e mai antagonista rispetto alla Nato, fanno intravedere, con l'avallo indispensabile della Gran Bretagna, una situazione di equilibrio, pur nella asimmetria di forze, tra i due grandi soggetti transatlantici. Equilibrio nella differenziazione, così com'è perce pita dal resto del mondo.
Cinque anni “pesanti”, dunque. Che hanno posto le basi per un avvenire nuovo, dentro l'Europa e fuori dell'Europa. Sarebbe curioso (anche se non sono molte le illusioni al riguardo) che chi va a votare per il parlamento europeo, ignori da dove si è partiti, dove si è arrivati, da dove si dovrà ripartire.

Andrea Manzella
La repubblica, 11.06.2004, p.1

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