Il brusio delle lingue
Leo Solari
Quale integrazione politica è possibile per le nazioni dell’Unione in assenza di una lingua comune? La necessità di coltivare l’utopia praticabile di un idioma europeo che non sia veicolo di una supremazia politica, ma l’espressione di una nuova
società civile
Il Mondo Politico italiano è ormai da tempo entrato in fibrillazione per l’approssimarsi delle elezioni del nuovo parlamento europeo. Ovviamente i partiti appaiono interessati a questo appuntamento elettorale principalmente per l’occasione che in esso trovano per una verifica delle rispettive basi elettorali, ai fini delle conseguenze che se ne possono trarre nel quadro politico nazionale. Si riuscirà non di meno a evitare che, come è avvenuto regolarmente nel passato, manchi un vero confronto politico sui problemi della costruzione europea e che la competizione risulti così incentrata su “casa”? Non occorre, certo, sottolineare che sarebbe di fondamentale importanza per la maturazione di una coscienza europea il fatto che in consultazioni come queste il dibattito elettorale risultasse basato almeno in buona parte su questioni riguardanti la vita dell’Unione e in tal modo l’elettorato sentisse di essere chiamato a pronunciarsi – anche, se non principalmente – in base al proprio giudizio su queste questioni. Tra gli argomenti di carattere comunitario atti, in linea di principio, ad incontrare l’interesse dei cittadini europei nell’imminente campagna elettorale potrebbe figurare un problema su cui, per una sorta di tacita convenzione generale, si è preferito finora non interrogarsi. Si tratta del problema della comunicazione linguistica nella costruzione europea.
La lingua e il pensiero
Ormai da vari anni si sta assistendo ad una crescita vieppiù accelerata della preminenza che – non diversamente da quanto avviene a livello globale – l’inglese sta conseguendo nella costruzione europea. La supremazia dell’inglese ha ormai raggiunto uno stadio molto avanzato nella comunicazione tra i soggetti pubblici e privati. Per quanto riguarda le istituzioni comunitarie, continua a essere rispettato – e non può essere altrimenti – il principio della parità delle lingue nazionali nelle riunioni e negli atti aventi carattere ufficiale. L’inglese però sta guadagnando sempre più terreno nel campo, di maggiore importanza nella competizione tra i diversi idiomi, delle lingue di lavoro. E la supremazia in questo ambito è destinata ad accentuarsi in relazione, in particolare, alle crescenti difficoltà che il problema della comunicazione linguistica nell’ambito delle istituzioni comunitarie presenterà a seguito dell’allargamento. Al riguardo basti ricordare che con le nuove adesioni di quest’anno, quelle già prestabilite e quelle molto probabili di fasi successive, si arriverà al raddoppio delle lingue ufficiali dell’Unione. In breve, si sta configurando concretamente la possibilità che l’inglese venga di fatto ad assumere progressivamente un ruolo di lingua franca nella comunicazione europea. In prospettiva si può intravedere l’approdo dell’inglese allo stato di seconda lingua dell’élites europee e, col tempo, dei popoli dell’Unione. Ciò non può non essere oggetto di riflessione. L’affermarsi di una netta egemonia di una delle esistenti lingue etniche non appare in consonanza con l’idea, quale è nello spirito dell’Unione, di una identità europea di cui il rigoglio del pluralismo culturale e linguistico rimanga connotazione essenziale. E’ da osservare anzi tutto che la consacrazione di un ruolo dominante dell’inglese si risolverebbe in un fattore di disuguaglianza delle opportunità tra i cittadini europei per quanto riguarda la comunicazione linguistica. Vi sarebbe una disparità infatti tra coloro per i quali l’inglese è la lingua madre e quanti, non trovandosi in questa condizione, sarebbero pertanto costretti ad imparare faticosamente una lingua che comunque potranno padroneggiare molto meno dei primi con conseguenti svantaggi nelle loro relazioni di lavoro. Non meno distante dalla concezione su cui si fonda la costruzione europea è un’altra conseguenza che emergerebbe a media e lunga scadenza. Con il definitivo consolidamento del ruolo dominante dell’idioma di uno dei paesi membri le altre lingue nazionali dell’Unione conoscerebbero probabilmente un processo di progressiva emarginazione. Non è azzardato pensare che, come l’esperienza storica insegna, esse – o, almeno, alcune di esse – potrebbero trovare nell’arco di un certo numero di generazioni una sorte analoga a quella che hanno conosciuto i dialetti e le lingue regionali negli stati nazionali.
Un fattore politico
Il più importante riconoscimento degli effetti distruttivi che la definitiva affermazione della supremazia dell’inglese potrebbe avere su altre lingue è venuto proprio da una tribuna del mondo anglosassone: e precisamente dall’ “Economist” con un articolo – apparso sotto il significativo titolo “Un impero mondiale con altri mezzi” – in cui si faceva un’ampia descrizione della vertiginosa ascesa dell’inglese nella comunicazione linguistica internazionale e si sottolineava testualmente che “il presente trionfo dell’inglese” aveva poco a che fare con la qualità della lingua, rappresentando fondamentalmente “il trionfo degli Stati Uniti come potenza mondiale”. Con considerazioni analoghe l’ “Economist” è tornato sullo stesso argomento nel marzo dello scorso marzo in un articolo intitolato “The galling rise of english” (“L’irritante crescita dell’inglese”). Editoriale in cui si accenna, questa volta, anche ad un aspetto precedentemente prospettato in questo scritto: e precisamente agli effetti discriminanti che il prevalere dell’inglese sta già avendo in Europa. Secondo un giudizio condiviso dalla citata autorevole testata britannica ci si dovrebbe preoccupare altresì dei rischi di colonizzazione culturale che per l’Europa rappresenterebbe l’affermarsi, nel Continente, del predominio di una lingua che oggi è anzitutto la lingua degli Stati Uniti d’America: la lingua, cioè, dell’ “Impero” e dei
Mc Donald’s. E’ presumibile che negli stessi paesi non anglofoni non siano pochi – soprattutto tra quanti hanno o presumono di avere una perfetta conoscenza della lingua di Shakespeare – coloro che, interpellati, sosterrebbero che su altre possibili considerazioni debbano far premio i vantaggi che nell’attività delle istituzioni europee e nelle relazioni tra i cittadini dei paesi membri potranno derivare dalla naturale evoluzione della lingua egemone verso un ruolo di lingua veicolare. Questa evoluzione, funzionale rispetto all’esigenza di una semplificazione del problema della comunicazione linguistica all’interno dell’Unione europea, favorirebbe una più profonda integrazione del Continente e in particolare la mobilità transfrontaliera della manodopera: pertanto non dovrebbe essere ostacolata. Appare probabile, però, che, se sollecitata ad esprimersi sull’argomento, la maggioranza dei cittadini europei non anglofoni dichiarerebbe di non vedere con favore la prospettiva di una definitiva predominanza dell’inglese e si dimostrerebbe interessata ad un discorso su questo problema. Sarebbe pertanto il caso che non si perdesse l’occasione, che le imminenti elezioni europee offrono, di promuovere un coinvolgimento dell’opinione pubblica europea nella questione della comunicazione linguistica dell’Unione.
Una questione di cittadinanza
Nel confronto tra le diverse opinioni potrebbe figurare anche una valutazione delle possibilità di concepire un’alternativa al ruolo che l’inglese tende ad acquisire nella comunicazione linguistica europea. Alternativa immaginabile nell’utilizzazione come lingua franca di una lingua artificiale che, appunto perché tale, cioè per sua natura neutra, non potrebbe avere nel futuro riflessi negativi sulle altre lingue. In particolare una simile soluzione, diversamente da quanto avverrebbe con l’egemonia della lingua di uno dei paesi membri, porrebbe tutti i cittadini su un piano di parità per quanto riguarda la lingua ausiliare. Si tratta di un’ipotesi utopica? Probabilmente sì. Ma anche l’unità europea è stata nel passato un’utopia. Un’utopia può essere giudicata anche la realizzazione di un assetto federale europeo. Eppure questa istanza figura come obiettivo di lotta della maggior parte degli europeisti. Perché, volendo rimanere nei limiti di quanto possa considerasi istanza realistica, rispondente a concrete convenienze per l’Unione europea, non sostenere l’opportunità di avvalersi dell’esperanto come lingua ponte (al riguardo il ricorso a quell’idioma sarebbe la soluzione più funzionale) quale uno dei modi per fronteggiare la crescente complessità che i problemi di interpretariato e traduzione sono destinati a presumere nell’Unione? Perché non avviare su scala adeguata la sperimentazione, rendendo l’insegnamento dell’esperanto ad essere utilmente propedeutico all’apprendimento di lingue etniche? Potrebbero così acquisirsi esperienze utili per discutere in futuro di eventuali successive fasi di utilizzazione dell’esperanto. Naturalmente non è neppure concepibile che si possa arrivare all’adozione dell’esperanto in una costruzione europea che rimanga nei limiti delle innovazioni previste nella costituzione che, come sembra ora quasi certo, si riuscirà a varare quest’anno. L’utilizzazione di una lingua artificiale presuppone in effetti la realizzazione di un’Europa federale nei cui cittadini la coscienza europea abbia raggiunto un grado di maturità tale da potersi riflettere nella volontà politica necessaria a sostenere il processo di affermazione di una nuova lingua. D’altra parte la visuale federalista evoca naturalmente l’idea di una lingua federale europea: un traguardo, questo, che, se realizzato, varrebbe più di ogni altro aspetto a far crescere nei cittadini dell’Unione la coscienza di far parte di una patria europea. (Da “Europa”, 30/4/2004).
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