04/10/2004, La Repubblica, pag. 1
Gli Usa, l’Europa e la sindrome del maggiordomo
Di Stimothy Gartonash
Sotto Tony Blair, la Gran Bretagna ha messo in pratica più che mai quella che io definisco la lezione diplomatica di Jeeves. Come l’inimitabile Jeeves, maggiordomo del giovane stupido aristocratico Bertie Wooster nei romanzi comici di PG Wodehouse, e come Alfred, l’attempato maggiordomo britannico dell’impetuoso Batman, la Gran Bretagna è impeccabilmente fedele in pubblico, ma in privato sussurra all’orecchio di Washington saggi consigli, misti a critiche mosse con tatto. «E prudente, sir?», mormoriamo noi britannici con discrezione. Ma il capo non presta più ascolto ai nostri consigli.
Le origini di questo atteggiamento sempre più umiliante risalgono alla Seconda guerra mondiale, quando, dopo la caduta della Francia in mano alle armate di Hitler, Churchill decise che l’unica speranza per la Gran Bretagna era far sì che l’America s’impegnasse al nostro fianco nelle vicende mondiali. Ne derivò una calorosa solidarietà pubblica, da alleati in tempo di guerra, mista a dissidi privati, spesso aspri. Blair è convinto, come ha ribadito nel suo intervento al congresso del partito laburista a Brighton, che oggi ci ritroviamo nella stessa situazione, a combattere cioè una nuova guerra mondiale contro il terrorismo. Gli attacchi dell’11 settembre sono stati la Pearl Harbor della nostra generazione, il 2001 è stato una replica del 1941, per cui dobbiamo ripercorrere i passi di Churchill.
Ma Churchill, era Churchill. Guidava quella che era ancora una potenza mondiale, benché sull’orlo d’un precipitoso declino. Era ascoltato per la sua statura e per il potere che rappresentava. Ma con il mutare dei rapporti di potere tra i due Paesi, anche Churchill si ritrovò umiliato. «Che cosa volete che faccia?» chiese una volta irritato durante una discussione con Roosevelt circa un prestito di guerra. «Devo rizzarmi sulle zampe posteriori per avere cibo, come Fala?». Fala era il cane di Roosevelt.
Da allora le cose sono andate di male in peggio. Harold Macmillan ha affermato che dovremmo essere i greci della novella Roma rappresentata dall’America – dimenticando che quei greci erano in genere schiavi. John F. Kennedy diede ascolto a Macmillan talvolta, come Ronald Reagan fece con Margaret Thatcher, benché ciò non gli abbia impedito di invadere l’isola di Grenada, parte del British Commonwealth, senza consultare la lady di ferro. Arrivati alla gestione diplomatica della crisi irachena il governo britannico era ridotto al ruolo di ramo provvisorio del dipartimento di stato. Quasi prendeva parte alle lotte intestine di Washington, nel tentativo di influenzare il presidente un po’ in un senso un po’ nell’altro, giurando al contempo perenne fedeltà alla linea della “guerra al terrorismo” di Bush.
Il tono di voce di Jeeves è colto alla perfezione da un documento, recentemente trapelato, in cui l’allora ambasciatore britannico a Washington riferisce la sua conversazione con Paul Wolfowitz, l’arcifalco dell’amministrazione Bush relativamente all’Iraq. «Abbiamo appoggiato il cambio di regime, ma il piano doveva essere ingegnoso e un fallimento non rientrava tra le opzioni», mormorava Jeeves, adattandosi acutamente al gergo americano.
Questo non significa che non avessimo una potenziale influenza. L’avevamo. I sondaggi di opinione Usa mostravano che Bush aveva bisogno di un alleato di prestigio per garantirsi il sostegno popolare alla guerra contro l’Iraq. Aveva bisogno della Gran Bretagna. Ma questo potenziale ascendente è stato annullato dall’approccio stile Jeeves. Non solo ha smorzato i toni del monito che alti funzionari britannici, tra cui quell’ambasciatore, avrebbero espresso in forma assai più aspra in conversazioni private con connazionali. Ha lasciato anche che Washington confidasse, a buona ragione, che alla fine i britannici sarebbero sempre stati al suo fianco. Così siamo finiti in questo spaventoso impiccio con un coltello alla gola dell’ostaggio britannico Ken Bigleye, l’Iraq ridotto più di prima a terra di reclutamento per i terroristi.
In cambio del sostegno a Bush, Blair ha ottenuto due cose: il tentativo di procurarsi una seconda risoluzione Onu, fallito, e la road map per un accordo di pace bilaterale tra Israele e la Palestina, che Bush ha stracciato sotto il naso del nostro premier sul prato della Casa Bianca un anno dopo. Avrebbe dovuto essere l’ultima goccia per l’approccio alla Jeeves.
Soprattutto se, come oggi appare probabile, affronteremo altri quattro anni di Bush, la politica britannica dovrebbe mutare sotto due aspetti. In primo luogo non dovremmo più astenerci dal criticare Washington in pubblico su questioni di importanza reale, come Israele e la Palestina. L’obiezione «siamo in guerra e quindi non dobbiamo dar man forte al nemico» in realtà non si applica, perché questa non è una guerra come la seconda guerra mondiale. Anche se il presidente in carica non ascolta le nostre critiche, il Congresso e l’opinione pubblica americana lo faranno. Dobbiamo agire in questo senso per una questione di rispetto nei confronti di noi stessi. I liberali americani non capiscono perché già da ora non siamo più incisivi. Ai tempi in cui si preparava la guerra in Iraq uno studente del Kansas mi chiese «So che noi eravamo una colonia britannica, ma, mi dica, da quando la Gran Bretagna è diventata una colonia degli Usa?» le cose non stanno così, ovviamente. Ma è questo che vogliamo si pensi di noi?
Secondo, e ancor più importante, dovremmo costruire l’Unione Europea come potente partner degli Usa. Dotarla di un po’ di nerbo militare. Aiutarla a parlare con una sola voce su grandi temi di politica estera, tipo l’Iran, cosa che già fa in campo commerciale. Trovare modi di concentrare il suo ampio ma ancora sparso soft power. Ne deriverà qualche tensione a breve termine nei nostri rapporti bilaterali con Washington tanto gelosamente custoditi ma, a lungo andare, sarà fonte di maggiore influenza. L’appendice britannica non condizionerà mai il gigante americano. Ma l’Europa è ben più che un’appendice. Se l’Europa riuscirà a consolidare e a proiettare il suo potere multidimensionale in nuce, Washington dovrà prestare orecchio a 450 milioni di europei come non fa con 60 milioni di britannici. Potere rispetta potere.
E’ interessante notare che uno dei pochissimi temi su cui il governo Blair ha criticato pubblicamente l’amministrazione Bush è rappresentato dai dazi sull’acciaio imposti dagli Usa. E i dazi sono stati eliminati. Come mai? Perché l’Ue è andata al WTO a minacciare contromisure. Economicamente l’Ue è una superpotenza. Potere rispetta potere.
L’altro motivo a favore di un cambio di condotta da parte nostra è che, se ci teniamo in disparte, gran parte dell’Europa continentale cercherà di definire se stessa, sotto la guida francese, come rivale degli Usa. Molti nella sinistra britannica preferirebbero questo esito. Il gollismo britannico è una setta in crescita. In platea al congresso di Brighton martedì, mi ha colpito il silenzio che ha accolto la breve ma sentita riaffermazione da parte di Blair della necessità della nostra alleanza con gli Usa. Non era un silenzio tiepido. Era un silenzio glaciale.
Eppure su questo Blair ha ragione. Un’Europa unita in chiave antiamericana non sarà affatto unita. Non esiste una maggioranza in questo senso in tutto il continente. Gli Usa riusciranno nel divide et impera. Nessuna delle grandi sfide del nostro tempo può essere affrontata senza la collaborazione tra Europa e America. Nulla potrebbe essere più vano dell’accapigliarsi di questi due grandi blocchi, patria dei ricchi e dei liberi, mentre il resto del mondo è in fiamme. La tragedia è che l’errore tattico compiuto da Blair nell’adottare lo stile Jeeves nell’approccio alla politica di Bush sull’Iraq, ha messo a repentaglio la sua specifica visione strategica.
Ovviamente faremo bene a mantenerci legati agli Usa attraverso tutti i numerosi e intimi canali bilaterali che abbiamo creato a partire dal 1941. Ma la Gran Bretagna ha due altre importanti incombenze. Non serve un capovolgimento totale, violento, della politica estera Britannica, solo una piccola rivoluzione di velluto. Con un motto chiaro: niente più Jeeves.
Le origini di questo atteggiamento sempre più umiliante risalgono alla Seconda guerra mondiale, quando, dopo la caduta della Francia in mano alle armate di Hitler, Churchill decise che l’unica speranza per la Gran Bretagna era far sì che l’America s’impegnasse al nostro fianco nelle vicende mondiali. Ne derivò una calorosa solidarietà pubblica, da alleati in tempo di guerra, mista a dissidi privati, spesso aspri. Blair è convinto, come ha ribadito nel suo intervento al congresso del partito laburista a Brighton, che oggi ci ritroviamo nella stessa situazione, a combattere cioè una nuova guerra mondiale contro il terrorismo. Gli attacchi dell’11 settembre sono stati la Pearl Harbor della nostra generazione, il 2001 è stato una replica del 1941, per cui dobbiamo ripercorrere i passi di Churchill.
Ma Churchill, era Churchill. Guidava quella che era ancora una potenza mondiale, benché sull’orlo d’un precipitoso declino. Era ascoltato per la sua statura e per il potere che rappresentava. Ma con il mutare dei rapporti di potere tra i due Paesi, anche Churchill si ritrovò umiliato. «Che cosa volete che faccia?» chiese una volta irritato durante una discussione con Roosevelt circa un prestito di guerra. «Devo rizzarmi sulle zampe posteriori per avere cibo, come Fala?». Fala era il cane di Roosevelt.
Da allora le cose sono andate di male in peggio. Harold Macmillan ha affermato che dovremmo essere i greci della novella Roma rappresentata dall’America – dimenticando che quei greci erano in genere schiavi. John F. Kennedy diede ascolto a Macmillan talvolta, come Ronald Reagan fece con Margaret Thatcher, benché ciò non gli abbia impedito di invadere l’isola di Grenada, parte del British Commonwealth, senza consultare la lady di ferro. Arrivati alla gestione diplomatica della crisi irachena il governo britannico era ridotto al ruolo di ramo provvisorio del dipartimento di stato. Quasi prendeva parte alle lotte intestine di Washington, nel tentativo di influenzare il presidente un po’ in un senso un po’ nell’altro, giurando al contempo perenne fedeltà alla linea della “guerra al terrorismo” di Bush.
Il tono di voce di Jeeves è colto alla perfezione da un documento, recentemente trapelato, in cui l’allora ambasciatore britannico a Washington riferisce la sua conversazione con Paul Wolfowitz, l’arcifalco dell’amministrazione Bush relativamente all’Iraq. «Abbiamo appoggiato il cambio di regime, ma il piano doveva essere ingegnoso e un fallimento non rientrava tra le opzioni», mormorava Jeeves, adattandosi acutamente al gergo americano.
Questo non significa che non avessimo una potenziale influenza. L’avevamo. I sondaggi di opinione Usa mostravano che Bush aveva bisogno di un alleato di prestigio per garantirsi il sostegno popolare alla guerra contro l’Iraq. Aveva bisogno della Gran Bretagna. Ma questo potenziale ascendente è stato annullato dall’approccio stile Jeeves. Non solo ha smorzato i toni del monito che alti funzionari britannici, tra cui quell’ambasciatore, avrebbero espresso in forma assai più aspra in conversazioni private con connazionali. Ha lasciato anche che Washington confidasse, a buona ragione, che alla fine i britannici sarebbero sempre stati al suo fianco. Così siamo finiti in questo spaventoso impiccio con un coltello alla gola dell’ostaggio britannico Ken Bigleye, l’Iraq ridotto più di prima a terra di reclutamento per i terroristi.
In cambio del sostegno a Bush, Blair ha ottenuto due cose: il tentativo di procurarsi una seconda risoluzione Onu, fallito, e la road map per un accordo di pace bilaterale tra Israele e la Palestina, che Bush ha stracciato sotto il naso del nostro premier sul prato della Casa Bianca un anno dopo. Avrebbe dovuto essere l’ultima goccia per l’approccio alla Jeeves.
Soprattutto se, come oggi appare probabile, affronteremo altri quattro anni di Bush, la politica britannica dovrebbe mutare sotto due aspetti. In primo luogo non dovremmo più astenerci dal criticare Washington in pubblico su questioni di importanza reale, come Israele e la Palestina. L’obiezione «siamo in guerra e quindi non dobbiamo dar man forte al nemico» in realtà non si applica, perché questa non è una guerra come la seconda guerra mondiale. Anche se il presidente in carica non ascolta le nostre critiche, il Congresso e l’opinione pubblica americana lo faranno. Dobbiamo agire in questo senso per una questione di rispetto nei confronti di noi stessi. I liberali americani non capiscono perché già da ora non siamo più incisivi. Ai tempi in cui si preparava la guerra in Iraq uno studente del Kansas mi chiese «So che noi eravamo una colonia britannica, ma, mi dica, da quando la Gran Bretagna è diventata una colonia degli Usa?» le cose non stanno così, ovviamente. Ma è questo che vogliamo si pensi di noi?
Secondo, e ancor più importante, dovremmo costruire l’Unione Europea come potente partner degli Usa. Dotarla di un po’ di nerbo militare. Aiutarla a parlare con una sola voce su grandi temi di politica estera, tipo l’Iran, cosa che già fa in campo commerciale. Trovare modi di concentrare il suo ampio ma ancora sparso soft power. Ne deriverà qualche tensione a breve termine nei nostri rapporti bilaterali con Washington tanto gelosamente custoditi ma, a lungo andare, sarà fonte di maggiore influenza. L’appendice britannica non condizionerà mai il gigante americano. Ma l’Europa è ben più che un’appendice. Se l’Europa riuscirà a consolidare e a proiettare il suo potere multidimensionale in nuce, Washington dovrà prestare orecchio a 450 milioni di europei come non fa con 60 milioni di britannici. Potere rispetta potere.
E’ interessante notare che uno dei pochissimi temi su cui il governo Blair ha criticato pubblicamente l’amministrazione Bush è rappresentato dai dazi sull’acciaio imposti dagli Usa. E i dazi sono stati eliminati. Come mai? Perché l’Ue è andata al WTO a minacciare contromisure. Economicamente l’Ue è una superpotenza. Potere rispetta potere.
L’altro motivo a favore di un cambio di condotta da parte nostra è che, se ci teniamo in disparte, gran parte dell’Europa continentale cercherà di definire se stessa, sotto la guida francese, come rivale degli Usa. Molti nella sinistra britannica preferirebbero questo esito. Il gollismo britannico è una setta in crescita. In platea al congresso di Brighton martedì, mi ha colpito il silenzio che ha accolto la breve ma sentita riaffermazione da parte di Blair della necessità della nostra alleanza con gli Usa. Non era un silenzio tiepido. Era un silenzio glaciale.
Eppure su questo Blair ha ragione. Un’Europa unita in chiave antiamericana non sarà affatto unita. Non esiste una maggioranza in questo senso in tutto il continente. Gli Usa riusciranno nel divide et impera. Nessuna delle grandi sfide del nostro tempo può essere affrontata senza la collaborazione tra Europa e America. Nulla potrebbe essere più vano dell’accapigliarsi di questi due grandi blocchi, patria dei ricchi e dei liberi, mentre il resto del mondo è in fiamme. La tragedia è che l’errore tattico compiuto da Blair nell’adottare lo stile Jeeves nell’approccio alla politica di Bush sull’Iraq, ha messo a repentaglio la sua specifica visione strategica.
Ovviamente faremo bene a mantenerci legati agli Usa attraverso tutti i numerosi e intimi canali bilaterali che abbiamo creato a partire dal 1941. Ma la Gran Bretagna ha due altre importanti incombenze. Non serve un capovolgimento totale, violento, della politica estera Britannica, solo una piccola rivoluzione di velluto. Con un motto chiaro: niente più Jeeves.
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Traduzione di Emilia Benghi