Gli imperi linguistici e il peso della cultura.

Gli imperi linguistici e il peso della cultura.

Liguria Italia/ L’italiano ha un’arma in più.

di Vittorio Coletti.

Questa settimana a Genova si è parlato e si parla di imperi nella Storia in piazza. Una grande iniziativa che, insieme con e giornate di Limes, disegna lo straordinario orizzonte internazionale in cui si muove la cultura offerta da Palazzo Ducale. Poiché, anche quest’anno e forse più degli altri anni, una parte importante della manifestazione è stata pensata per la scuola e gli studenti (oltre 7000!), vorrei dedicare questa rubrica a un particolare tipo di impero, che è molto utile che i giovani conoscano e frequentino: quello delle lingue. Se misurassimo il potere sulla base delle lingue e del numero di coloro che le parlano vedremmo che inglese e cinese dominano ogni classifica, ma, mentre il cinese lo fa soprattutto col grande numero dei suoi madrelingua (circa un miliardo), l’inglese lo fa aggiungendo agli oltre 400 milioni di nativi anglofoni l’enorme numero di coloro che lo parlano correntemente come seconda lingua (c’è chi dice quasi 2 miliardi). Significativamente, i nativi spagnoli (contando ovviamente anche quelli dei Paesi del Sudamerica) sono più o meno numerosi quanto quelli di lingua inglese, ma sono molto meno coloro che parlano lo spagnolo come seconda lingua. I francofoni nativi sono relativamente pochi, ma il francese raggiunge lo spagnolo nel mondo con l’apporto di quelli che lo conoscono come seconda lingua. L’italiano conta poco più di 60 milioni di nativi e forse altrettanti che lo conoscono in qualche modo. Chiediamoci ora quali fattori hanno reso grandi gli imperi di alcune lingue, come inglese, cinese, spagnolo, francese o arabo. Conta certamente quello demografico, sulla base del quale stravince oggi il cinese, ma, se fosse il solo, entrerebbe autorevolmente in classifica anche l’hindu. Di sicuro non è il fattore che ha determinato il successo di altre lingue. Il francese deve il suo soprattutto alle armi con cui ha conquistato grandi territori extraeuropei e lo stesso si può dire dello spagnolo e del portoghese. Con le armi, l’antica Roma aveva imposto il latino in tutta l’Europa mediterranea, nel Nord Africa e nell’attuale Romania. Armi e demografia sono state nei secoli uno dei principali veicoli del successo dell’arabo. Anche l’inglese ha conquistato il primo posto con le armi, con cui ha creato un enorme impero coloniale, e la demografia ha fatto la sua parte; ma a questi due fattori occorre aggiungerne, soprattutto ora, un terzo, non meno decisivo: la cultura. A questo si deve anche la piccola fortuna dell’italiano, cui le armi non hanno giovato (anzi!) e che la demografia, dopo aver per decenni alimentato con le emigrazioni la sua fortuna all’estero, non sostiene più. Se l’italiano oggi vuol dunque farsi un suo pur modesto impero di parole deve ricorrere alla cultura. Singolarmente è proprio quello che è avvenuto in passato. Mentre quasi tutti gli altri stati europei sono stati unificati linguisticamente dal potere politico (Francia, Inghilterra, Russia, Spagna) o da quello religioso (Germania), l’Italia si è creata una lingua per la via di una cultura laica (la sua Chiesa ha continuato a usare il latino sino a metà Novecento). C’è di più: l’italiano si è affermato nel mondo quando ancora non esisteva l’Italia proprio per il prestigio della sua cultura (letteraria, figurativa, musicale) e l’intraprendenza dei suoi commercianti, diventando per un certo periodo la prima lingua di cultura in Europa e una sorta di lingua franca nel Mediterraneo. Una lingua senza impero, è stato felicemente definito, perché le armi non gli sono servite (in genere gli italiani le hanno usate contro se stessi). Ma una lingua di cultura. Quando il cancelliere austriaco Metternich definì la parola Italia una semplice “espressione geografica”, Carducci replicò che era invece “un’espressione letteraria”, una grande “tradizione poetica”, che, da Petrarca a Manzoni a Verdi, aveva invocato e alla fine ottenuto la pace e l’unità di un Paese in cui le guerre intestine erano all’ordine del giorno. Già Dante aveva teorizzato il ruolo della cultura come sostituto in Italia di una forza politica centrale e indicato nella lingua quel patrimonio unitario che altrove era invece garantito dalla politica o dagli eserciti. La cultura in effetti costruisce, alimenta e rafforza le lingue. Il latino ha continuato a dominare il mondo come lingua di cultura per quasi 15 secoli dopo il crollo delle istituzioni politiche e militari che lo avevano portato al successo. Il greco, affidato solo al prestigio della sua cultura, è ancora servito per dire telefono o ecografia. Oggi, la lingua che ha costruito nel mondo un impero è l’inglese, come abbiamo detto, e la forza della cultura è stata non meno decisiva di quella delle armi e della demografia. Se dipendesse solo dalle armi, il russo le contenderebbe il prestigio. Decisiva per il successo dell’inglese oggi nel mondo è anche l’economia, come anticamente in Italia era stato determinante il fiorino nel diffondere il fiorentino in tutta la Penisola e farne l’italiano. Ma se bastasse l’economia, il tedesco sarebbe ben più forte di quanto non sia. In realtà, tutti i diversi fattori sin qui esaminati hanno un ruolo importante nel favorire il successo nello spazio e nel tempo di una lingua. Ma quello della cultura è il vettore più pacifico e generoso, non cruento come le armi, non spietato come l’economia, non cieco come la demografia. Se oggi l’inglese domina il mondo non è solo per la forza militare, né per la strapotenza economica, né per i milioni di nativi anglofoni; è anche perché le grandi scoperte scientifiche e le più straordinarie innovazioni tecnologiche stanno avvenendo in quella lingua. Un tempo, quando l’arte era la più nobile attività umana, l’italiano primeggiava nel mondo. Oggi, quando la cultura non è più solo quella umanistica ma anche quella scientifica, stravince l’inglese, superiore in entrambe. Quindi, se le altre lingue perdono, la colpa non è (solo) della debolezza militare o economica o demografica dei Paesi che le parlano, ma anche della loro povertà o inerzia culturale. Una crisi che si manifesta particolarmente acuta in Italia, che, perduto il prestigio culturale, non ha più energia per la sua lingua, che senza la cultura non sarebbe neppure nata. Oggi solo l’inglese possiede tutti gli ingredienti per esercitare un potere linguistico mondiale, tanto che resta la lingua principale dell’Unione europea anche dopo la Brexit. Ed è un guaio, perché, il mondo non può pensare in una sola lingua. Se non ci si vuole arrendere a questo nuovo imperialismo, posto che non si può, né si deve, ricorrere alle armi o alla demografia e non si può competere nell’economia, bisognerebbe scommettere sulla cultura.
(Da genova.repubblica.it, 9/4/2017).

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