Dichiarazione di Giorgio Pagano, Segretario dell’Associazione Radicale Esperanto
In un denso discorso tenuto oggi al castello Bellevue sulle prospettive del progetto federale europeo, il Presidente della Repubblica Federale Tedesca Joachim Gauck ha affrontato anche il cruciale problema linguistico dell’Unione.
Ineccepibile il richiamo alla necessità di avere una “lingua franca”, di costruire in Europa “un’agora, un forum comune di discussione che ci aiuti a convivere in modo democratico”. Peccato però che tale lingua franca finisca per essere identificata da Gauck con l’inglese, in un discorso che cade nella retorica della mistificazione: “non dobbiamo permettere che le cose seguano semplicemente il loro corso riguardo l’integrazione linguistica. Più Europa significa multilinguismo non solo per le élite ma anche per settori sempre più ampi della popolazione, per sempre più persone, per tutti! Sono convinto che sentirsi a casa propria nella propria lingua madre e nella sua magia e essere capaci di parlare abbastanza inglese da cavarsela in tutte le situazioni e a tutte le età sono due aspetti che possono convivere in Europa”.
Caro Presidente, vorrei invitarla a dichiarare apertamente i suoi intenti e a non voler confondere gli eurocittadini parlando dell’inglese come di una lingua franca mentre, invece, come hanno dimostrato intellettuali della levatura Robert Phillipson, l’inglesizzazione è processo di occupazione e conquista.
Lei invoca il nobile concetto di multilinguismo dove, di fatto, le politiche della Commissione europea e quelle nazionali europee hanno agito sostanzialmente nel solco del collaborazionismo con gli angloamericani e contro l’indipendenza europea, ostacolando l’adozione dell’Esperanto come lingua comune, questa sì lingua franca, non etnica e democratica e, oltretutto, a costo zero.
Non mi stupisce quindi Presidente Gauck che lei si rivolga alla Gran Bretagna dicendo “Carissimi, vorremmo che restaste con noi. Più Europa non può significare un’Europa senza di voi!”.
Come patrioti europei riteniamo però che un limite al servilismo di 68 anni debba pur esserci, oramai ne va dell’esistenza in vita o meno dell’Unione europea.
Roma, 22 febbraio 2013