Europa: un continente senza lingua

Da Limes – rivista italiana di geopolitica

I popoli europei senza StatoEuropa: un continente senza linguadi Giovanni Armillotta

Dai popoli senza rappresentanza giuridica alla mancanza di una lingua liberamente condivisa, le maggiori contraddizioni di un’Europa che non c’è. L’esperanto alternativa di pace alle lingue franche.

In Europa ci sono alcune realtà geopolitiche conosciute come semplici regioni di Stati europei: Bretagna, Catalogna, Cornovaglia, Fær Øer, Frisia, Friuli, Galles, Lapponia, Isola di Man, Occitania, Paesi Baschi, Paesi Ladini, Sardegna, Scozia e i Sòrabi della Lusazia. Le genti originarie di queste sono risultate perdenti nell’urto con realtà allogene e più forti apparati militari prima, e coercitivo-amministrativi dopo.

Quando si afferma che in uno Stato – come potrebbe essere il nostro, o anche l’ex franchista Spagna, oppure l’eterna liberale Francia dove i Baschi hanno meno diritti di espressione dei fratelli nel Paese iberico (ma non va detto), per non parlare della democraticissima Gran Bretagna col suo ‘apartheid-post litteram’ in Irlanda del Nord (questo va detto ancora meno, sennò si rischia di passare da cattolici integralisti anti-UEisti) – ci siano cittadini da venti generazioni e passa che pensano in un’altra lingua, allora mi viene da sorridere. Specialmente quando ci spacciano le loro diversità linguistiche e culturali come un qualcosa piovuto dal cielo in un tempo remoto, magari sbarcando da un Ufo. Oppure, nel migliore dei casi, di questi popoli non se ne parla nemmeno nei libri di scuole primarie, medie e superiori, ed è rarissimo che siano rammentati… Allora si fa ritenere che siano qui o là per caso. A quel punto ho provato a riflettere non solo sulla loro storia ma pure sui motivi per cui sono, appunto, qui o là, ma non per caso.

Le zone geografiche e geopolitiche in questione raccolgono epoche antiche di grande storia e guerre contro un potere accentratore. Oppure riportano alla luce “annali” di quando questi stessi popoli a loro volta racchiudevano Stati solidi e di antiche tradizioni. Per cui riscoprire l’“etnia dimenticata” è far comprendere lo smarrimento culturale e giuridico che molti di questi popoli hanno attraversato ed attraversano a contatto con le “metropoli” vittoriose.

Si possono preservare queste preziosissime realtà linguistiche enfatizzando il problema dell’affievolirsi della primeva espressione idiomatica; e lottare per l’istituzionalizzazione del ricordo delle origini storiche e culturali. Il tutto grazie agli sforzi di quei pochi che cercano di mantenere viva la fierezza delle proprie genti ed identità, le quali rischiano di sparire nell’appiattimento condotto dalla dissuasione e dai tentativi di omologazione di coloro che una volta erano gli invasori, e oggi rappresentano quella legittimità riconosciuta dalla comunità e dal diritto internazionale.

O questi cittadini che pensano in un’altra lingua portano in alto le loro aspirazioni, oppure sono destinati a sparire come etnia, e quindi fallire, limitando i propri intenti al circoletto “esotico” di strapaese. Il buon senso ci dice che se non penso io a me stesso, chi lo deve fare? Un terzo, un secondo o mamma e papà? Voglio dire che la tutela di una presenza minoritaria su un qualsiasi territorio è non soltanto curare la lingua, attraverso i soliti congressetti ad invito per sedicenti esperti di turno, legati al partito X o Y. Esistono ulteriori dimensioni che vanno dalla letteratura alla rilettura della Storia, ecc. Argomenti che vanno enucleati mediante uno studio complessivo da parte dell’entità potestativa sollecitata fortemente in tal senso, che – in caso d’insensibilità da parte degli interessati – spesso considera tali regioni, al massimo, patrimonio turistico, se non peggio: una collana di fiori sulle tette delle ragazze che salutano i villeggianti in arrivo.

Altro problema che si lega all’apparente unità europea in cui siamo solamente calati de nomine, è la mancanza di un sistema di comunicazione umano fra i popoli del nostro continente, a parte le bubbole varie su internet novella base dell’“internazionalismo libertario”.

Penso che l’esperanto non sia fra le tante soluzioni comunicative che possano diffondersi fra i popoli, bensì l’unica risposta possibile a tale necessità. L’esperanto potrebbe tutelare anche queste realtà linguistiche minoritarie, mettendo su un piano neutrale le comunicazioni intestine fra popoli e madrepatria e internazionali – valorizzando i rispettivi patrimoni linguistici, innanzitutto perché essa non è una una lingua franca. Mi spiego.

Se poniamo mente alle lingue franche nel corso della storia, esse sono state sempre un vettore di trasmissione sprigionatosi da un vasto ambiente geopolitico pre-esistente. Il latino che unì nel Medioevo l’Europa germanico-barbarica a quella meridionale era frutto del millennario Impero Romano e dei propri ‘limes’ tricontinentali.L’arabo divenne la lingua franca – e poi ufficiale – dal Maghrib alla Mezzaluna fertile per poi estendersi – al pari della lingua di Virgilio – a livello totale verso gli adepti delle rispettive fedi di Islàm e Cristianesimo.Il cinese ha organizzato popoli non ‘han’, trasformando l’Asia centrale – dai confini dell’Afghanistan al Golfo del Tonchino – in un ‘continuum’ di unità politica a guisa di novella ‘pax mongolica’.

Lo stesso dicasi del russo che ha ampliato la bianca Terza Roma dal deserto dei Tartari (ex frontiere austo-ungariche) solcando popoli uralici e altaici sino a lambire l’“antipodica” penisola coreana. Russo che, dopo l’implosione dell’Unione Sovietica, ha dovuto cedere il passo alla cintura turcofona da Egeo a Cina occidentale.Anche il francese pre- e post-rivoluzionario – dallo Stato della Chiesa alla corte degli zar, non dimenticando Casa Savoia – ha avuto il suo momento almeno sino alla Seconda Guerra Mondiale, quale idioma della diplomazia.

Oggi abbiamo l’inglese che, si badi, non è un prodotto britannico ma della vittoria statunitense nell’ultima deflagrazione mondiale. Negli ultimi anni sta riemergendo lo spagnolo che pian piano dal subcontinente americano pervade gli ‘States’ per via delle classi meno abbienti.Però, tutte le lingue qui sommariamente esaminate, hanno una caratteristica che accomuna il proprio successo: sono state imposte da guerre, massacri, spargimenti di sangue, imperialismi, liberal-capitalismi trionfanti, ideologie da massimi sistemi, messianismi, diffusioni massmediatiche e/o subliminali, modelli di sviluppo e di vita artificiali e fittizi, esclusioni di tradizioni, demolizioni di memorie storiche e radici.Non sono certo un utopista. Se lo fossi, scriverei favole per bambini ricchi e non studierei la geopolitica. Non penso affatto che l’esperanto possa divenire la lingua internazionale mercé una risoluzione dell’Assemblea Generale dell’Onu, oppure per decreto di qualche esecutivo di buona volontà. Ma una cosa è certa. Latino, arabo, cinese, russo, turco, francese, inglese, spagnolo – personalizzandoli – non accetterebbero mai che l’altro prendesse il sopravvento, per non dire delle arcinote insofferenze reciproche. Al contrario, l’esperanto non ha mai ucciso alcuno per farsi studiare sui banchi di scuola. Solo su questo bisogna riflettere.

In conclusione, come afferma Maurizio Vernassa per costruire in concreto la nuova, grande Europa delle nostre aspirazioni e speranze, l’Europa della civiltà comune e condivisa, l’Europa liberata dalle inaccettabili e pericolose prevaricazioni nazional-imperialistiche e dalle tragedie, antiche o recentissime, da esse prodotte, occorre per prima cosa conoscere in profondità tutte le caratteristiche delle sue molteplici componenti storiche, politiche, sociali ed etniche. Proprio in base a questo assunto è eticamente necessario e politicamente condivisibile presentare un primo segmento di una Storia dei popoli europei senza Stato o, per meglio dire, di quei popoli o etnie “senza voce”, identificati da lingua, territorio, cultura, sistemi sociali propri, che per la loro condizione di minoranze sono stati spesso completamente dimenticati dalla storia ufficiale e, quasi sempre nel corso degli ultimi due secoli, defraudati dei loro diritti, discriminati e colonizzati. Una sorta di rimozione dalla nostra coscienza collettiva, che trova oggettiva conferma nella scarsa frequentazione storiografica del tema, in modo unitario e sistematico.

Allargando l’impegno a più ampio respiro – in quanto sono il primo ad affermare che il mio progetto non sia affatto esaustivo – se ne ricaverebbe una convinta rivalutazione del valore intrinseco dell’autonomia, nella sua essenziale azione di protezione, difesa e valorizzazione dei valori identitari, concorrenti e non antagonisti nella costruzione della nuova identità comune, la cui forza risiede senza alcun dubbio nel pluralismo delle voci che contribuiscano positivamente a realizzarla, riuscendo in tal modo a vincere le occorrenti conflittualità politiche.

Articolo pubblicato il 7.9.2009
http://temi.repubblica.it/limes/europa-un-continente-senza-lingua/6128

Armillotta è autore del Libro “I popoli europei senza stato” del 2009. Per saperne di più su Giovanni Armillotta:
http://foreignaffairs.tripod.com/armillotta/home_it.html

Questo messaggio è stato modificato da: Giorgio_Pagano, 06 Ott 2009 – 17:36 [addsig]

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