18.07.2004 La Repubblica p.14
Europa, dal trattato alla CostituzioneDi RALF DAHRENDORF
Tecnicamente parlando, lo strano documento emerso dalle riunioni fiume della Conferenza intergovernativa degli Stati membri dell'Unione europea non è una Costituzione. In nessuna sua parte figura, ad esempio, la frase: «Noi popoli d'Europa… ». Di fatto, il documento è promulgato in forma di un «Trattato che istituisce una Costituzione europea», stipulato tra le parti, cioè tra i governi dei rispettivi Stati. Dovranno ratificarlo i parlamenti nazionali, passando in alcuni casi per un referendum, e potrà essere emendato solo da ulteriori Conferenze intergovernative; non dal parlamento europeo, e men che meno dai (non esistenti) «popoli d'Europa».
Il Trattato risulta particolarmente ambiguo laddove usa il linguaggio delle costituzioni. Ad esempio, la cosiddetta «Carta dei diritti fondamentali» sembra intesa a tutelare le libertà civili. Di fatto però, è riferito solo agli atti compiuti dalle istituzioni dell'Unione: «Le disposizioni della presente Carta si applicano alle istituzioni, agli organi e alle agenzie dell'Ue, nel rispetto del principio di sussidiarietà, come pure agli Stati membri, esclusivamente nell'attuazione del diritto dell'Unione» (art. II-51). Ogni riferimento alla garanzia di qualche diritto specifico è corredato dalla clausola «in conformità con le leggi nazionali vigenti per l'esercizio dei suddetti diritti». Analogamente, quando descrive le istituzioni dell'Ue, in buona sostanza il Trattato riassume il diritto esistente. Alcune nuove disposizioni-riguardanti ad esempio la ponderazione dei voti nazionali in seno ai Consigli dell'Unione – sono state e continueranno ad essere molto discusse. Vari provvedimenti, come quello che istituisce una Commissione di 25 membri – e forse di 30 in un prossimo futuro- saranno modificati quanto prima, semplicemente perché allo stato attuale sono inagibili. In ogni caso, è certo che l'attuale testo del Trattato non sopravviverà per oltre due secoli come la Costituzione USA, e forse neppure per due decenni.
Ma come è potuto accadere che tanti politici intelligenti abbiano fatto un lavoro così abborracciato? L'Europa – ormai dobbiamo rendercene conto – è fatta di atti simbolici non meno che di realtà tangibili. Ecco perché ha la strana particolarità di essere a volte visibile e a volte no. Per lungo tempo, Tony Blair ha asserito che il Trattato fosse un semplice esercizio di riordino, per cui non andava preso troppo sul serio. Ma a un certo punto, il primo ministro britannico è stato sopraffatto dal dibattito simbolico, e indotto a cambiare totalmente la sua linea di condotta.
Ora, tra la sorpresa quasi generale, TonyBlair ha promesso un referendum sul Trattato, dichiarando che il suo esito deciderà una volta per tutte della permanenza del Regno Unito nell'Unione o della sua uscita. Un dibattito analogo è attualmente in corso in Svezia. Altrove, e in particolare in Germania e in Francia, dove sulla cosiddetta Costituzione si erano fatte dichiarazioni tanto impegnative, i pochi che ne hanno effettivamente letto il testo si chiedono perché mai dovrebbero essere quelle 125 pagine spesso molto fitte, se non opache, a salvare l'Europa.
Charles Grant, responsabile del Centro Britannico per la Riforma Europea, ha formulato alcune ipotesi su ciò che potrebbe accadere nel caso di un esito negativo del referendum. A suo parere, se fosse in gioco solo la Gran B retagna, vi sarebbero effettivamente pressioni su Londra per un nuovo ricorso alle urne (come è accaduto in Danimarca nel 1992 e in Irlanda nel 2001), oppure, in caso di uscita dall'Ue, per il passaggio a un qualche status di «paese associato». Se invece altri Stati, e non tra i più piccoli, si esprimessero nello stesso senso, si dovrebbe aspettarsi (sempre secondo Grant) che gli altri paesi membri, e in particolare la Francia e la Germania, decidano di «procedere con un nucleo centrale europeo».
A questo punto c'è però da chiedersi cosa farebbe quest'Europa nucleare”; e in particolare, come si regolerebbero i governi dei paesi di questo «nucleo centrale» a fronte dello scarso entusiasmo dei rispettivi popoli, posto in luce dalle elezioni del giugno scorso.
Tutto ciò porta a concludere che c'è bisogno di una pausa di riflessione. In assenza di un progetto politico consistente, l'Europa sembra essersi ripiegata su se stessa, producendo un documento che ostenta di essere assai più di quanto non rappresenti in realtà. Laddove le popolazioni avranno modo di dire la loro, esprimeranno considerevoli dubbi, come peraltro è avvenuto nelle recenti elezioni europee. Di fatto, quanto più antica e consolidata è la democrazia di uno Stato europeo, tanto più i suoi cittadini vedono con scetticismo le affermazioni del Trattato costituzionale. E così cresce sempre più il divario tra la visione dell'Europa e la realtà dell'Unione europea.
Cosa dovrebbe fare allora chi crede in un'Europa reale e nei suoi comuni propositi? La prima esigenza è quella di moderare la temperatura del dibattito sul Trattato. Non è il caso di avanzare pretese insostenibili. Non ne dipende la sopravvivenza dell'Europa allargata.
Seconda esigenza: dare maggior risalto all'Europa reale. Il mercato unico è ben lungi dall'essere completato. E varie questioni di rilievo sono tuttora irrisolte nelle zone confinanti con l'Europa allargata, nell'Est europeo e nei Balcani. In breve, l'ordine del giorno dovrebbe dare meno spazio alle preoccupazioni astratte sull'identità europea, e privilegiare invece l'azione pratica, volta a definirla nei fatti più che nei simboli.