Esperanto, elfico e altre utopie resuscitate in rete
L’esperanto è una lingua viva più che mai. Grazie a internet gli appassionati adesso possono …
di Federico Brusadelli
Chissà da quali speranze era mosso, l’oftalmologo polacco Ludwig Lejker Zamenhof, mentre passava ore e giornate a creare la sua lingua, la lingua dell’Utopia. E di speranze ne aveva di sicuro molte, se come pseudonimo si era scelto “Doktoro Esperanto”, il dottore che spera. Sperava, forse, che un giorno quella sua lingua semplice ma ricca, sarebbe stata il simbolo di un mondo nuovo, senza confini né barriere, senza discriminazioni, guerre o sopraffazioni. La lingua dell’Utopia, appunto. «La diversità di lingue è la sola causa o almeno la principale che allontana la famiglia umana e la divide in fazioni nemiche. Sono stato educato all’idealismo; mi hanno insegnato che tutti gli uomini sono fratelli e intanto sulla strada e nel cortile tutto a ogni passo mi ha fatto sentire che non esistono uomini, esistono soltanto russi, polacchi, tedeschi, ebrei», scriveva Zamenhof.
Mentre il dottore creava, il diciannovesimo secolo volgeva alla fine e i nazionalismi accendevano le micce del Novecento. E al posto del suo mondo nuovo e della sua lingua della speranza, si preparavano due guerre mondiali, la bomba atomica, scontri fra civiltà e fra religioni, Muri e divisioni. Speranze malriposte, verrebbe da dire. Eppure quelle speranze non sono nate certo con lui, né con lui si sono esaurite. Perché la sua creazione, l’esperanto, resiste e combatte ancora, parlata da due milioni di persone, e ancora agitata come vessillo di un pianeta senza confini. Costantemente proposta (e altrettanto costantemente bocciata) come lingua internazionale, o come lingua ufficiale dell’Onu (e su questo l’Unesco ha sempre espresso parere favorevole) o dell’Unione europea, o almeno come lingua di studio nelle scuole e nelle Università, l’esperanto non muore. Anzi, pare rinascere. Con internet, anzi con l’inter reto, pare aver trovato l’alleato che gli mancava. Google ha festeggiato i 150 anni dalla nascita di Zamenhof il 15 dicembre, con tanto di bandiera “ufficiale” verde e bianca. E sempre più giovani lo studiano, scaricano i corsi, chattano e navigano. Magari per divertirsi, magari per passare il tempo. E c’è anche chi prova a scrivere poesie o romanzi, chi si avventura nella traduzione di opere come la Divina Commedia o Pinocchio. C’è forse qualcuno che in esperanto prega («Patro nia, Kiu estas en la cielo, sanktigata estu Via nomo. Venu Via regno», è l’inizio del Padre Nostro), e chi compone canzoni. I papi fanno gli auguri in esperanto. E negli anni Sessanta sono stati girati anche due film, in esperanto (un poliziesco e un horror, due flop che hanno rischiato di sparire dalla storia). Ma è una realtà più diffusa di quanto si pensi, anche in Africa e in Cina, se anche alle Olimpiadi di Pechino del 2008 la lingua di Zamenhof era tra le nove “ufficiali”.
Un’Utopia che non nasce con il Doktoro esperanto, si diceva. Senza riandare alle suggestioni bibliche della Torre di Babele, tanti sono i tentativi, lungo il corso della storia, di regalare all’umanità una lingua universale. E ci fu chi ci riuscì: gli imperatori cinesi e quelli romani, per esempio, unificarono linguisticamente tutto i loro rispettivi “mondi”. E innumerevoli sono gli scrittori che si sono divertiti a creare lingue letterarie, idiomi di mondi antichi o di mondi immaginari. Da George Orwell a Marion Zimmer Bradley, da Vaclav Havel (sì, lui, l’ex presidente ceco che in una sua pièce degli anni Sessanta creò lo Ptydepe, oscuro linguaggio totalitario e burocratico), da Ursula Le Guin a Mark Rosenfelder. Con l’esempio straordinario di John R.R. Tolkien, che definì scherzosamente la sua mania di creare lingue il suo “vizio segreto”. E più che lingue sono capolavori, quelli di Tolkien. All’elfico (in tutte le sue varianti, specificano i filologi tolkieniani) sono dedicati siti internet e pubblicazioni, ci sono grammatiche e dizionari, poemi e racconti (qualcuno sta traducendo in elfico la Bibbia, pare). Se l’esperanto è schematico e logico, le lingue di Tolkien sono volutamente complesse, quasi barocche. Sono “invecchiate” artificialmente, specchio di una mitologia ampia e monumentale, prodotto di mondi lontani ma veri, che non si riescono a credere prodotti dalla mente di un solo uomo. E di sicuro ci sarà qualcuno che si immagina un mondo (magari un’Europa) che trovi nell’elfico la sua lingua comune. Di certo c’è chi, e siamo in Spagna, sta ricostruendo l’indoeuropeo. Che, dovutamente liberato da ogni pericolosa incrostazione razziale, dovrebbe diventare – nelle intenzioni dei suoi “demiurghi”, s’intende – l’idioma comune del Vecchio continente, un po’ come l’ebraico biblico rispolverato dopo secoli per lo Stato d’Israele (esperimento che ha funzionato in maniera eccellente, fra l’altro). Ma, tornando al punto di partenza, l’esperanto resta ancora il candidato più forte. Il candidato più forte a un ruolo difficile (e, per molti, inutile): quello di una lingua senza un’istituzione, e senza una cultura. Più che una forza, una debolezza, in effetti. Perché, alla fine, la domanda chiave è questa: può esistere una lingua senza cultura? E la risposta, d’istinto, è no. Una lingua non rappresenta una cultura, una lingua è una cultura, la incarna, la esprime e le dà forma. Ecco perché, sostengono i detrattori, una lingua artificiale, fredda e di plastica, è meglio lasciarla al divertimento dei linguisti. Però, pensandoci bene, una lingua che sia un “mezzo” per comunicare, e che quindi dia voce a tutte le culture di chi la parla, quasi fosse un “jolly mentale”, può rivelarsi un esperimento intelligente. Una lingua, insomma, che non crea identità, ma le fa comunicare. Agli antipodi del dialetto, insomma. Una lingua che, senza sostituirsi alle altre, traduca gli schemi esistenti. Senza crearne di nuovi (almeno all’inizio). Non a caso, i più precisi chiamano l’esperanto e i suoi (tanti) simili “lingue ausiliari internazionali”. Quanto questo ausilio possa effettivamente aprire le porte per una nuova era, non è dato saperlo per ora. Ma in fondo aveva ragione, il dottore speranzoso: forse non sarà l’unico motivo di conflitto fra i popoli, anzi sicuramente non lo è, ma il “non capirsi” è un formidabile seme d’odio. Einstein, Tolstoj, Verne, Giovanni XXIII e Paolo VI hanno creduto, chi più chi meno, al sogno di Zamenhof. Per questo, anche se tutto dice che si tratta di una sfida difficile, sapere che c’è chi, in quel sogno, ci crede ancora, fa piacere. Sarà buonismo, ma trovare ancora, in mezzo a tanti cantori d’odio e poeti dell’incomunicabilità, persone convinte che tutti, in fondo, possiamo capirci e possiamo comunicare, è una piacevole sorpresa.
(Da Il Secolo d’Italia, 20/12/2009).
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