Egemonia asiatica, la Cina punta alla leadership totale

L’America scopre di temere la rincorsa cinese. Dall’economia alle tecnologie

dai trasporti all’energia Pechino guadagna sempre più terreno

WASHINGTON – Quando oggi Barack Obama riceverà qui il Dalai Lama, nella Map Room della Casa Bianca, Washington aspetterà col fiato sospeso la nuova bordata di proteste da Pechino. Gli Stati Uniti si chiederanno quale prezzo la Repubblica Popolare potrebbe far pagare, per punire quell’omaggio al Tibet che considera un’interferenza nella propria sovranità nazionale. È un America nervosa perché si scopre vulnerabile, assediata dalla grande rivale asiatica, su fronti nuovi e insospettati: l’industria e la finanza, certo, ma ora anche la ricerca scientifica, la cultura, il “soft power” su cui si costruisce un’egemonia globale. Lo sconvolgimento dei rapporti di forze parte naturalmente dall’economia. Proprio alla vigilia dell’arrivo del Dalai Lama si è appreso che Pechino ha “liquidato” una parte dei suoi giganteschi investimenti in Buoni del Tesoro degli Stati Uniti.

Commentando la vendita record dei Treasury Bond, per 34 miliardi di dollari (ne restano comunque 755 miliardi nelle casse della banca centrale cinese) il Wall Street Journal si chiede con ansia se sia “un segnale di sfiducia verso l’America”. Che umiliazione: il Tesoro degli Stati Uniti trattato come fosse la Grecia, in balìa del giudizio dei cinesi. Più probabilmente il disinvestimento di Pechino è una mossa cautelativa. Il premier cinese Wen Jiabao da mesi denuncia il rischio che l’alto debito americano rilanci l’inflazione, e che Washington rimborsi i cinesi con carta straccia. Perciò Pechino diversifica i suoi investimenti. Anziché Bot, compra direttamente aziende americane. Il fondo sovrano del governo di Pechino (China Investment Corporation) ha divulgato la lista delle grandi imprese di cui è diventato azionista, per ora di minoranza. C’è il meglio del capitalismo americano: Apple, Citigroup, Coca Cola, Bank of America, Visa, Johnson & Johnson.

Un altro segnale enigmatico, alla vigilia dell’incontro tra Obama e il Dalai Lama, è il nulla osta del governo cinese per l’attracco a Hong Kong di una flotta di cinque navi militari americane, guidate dalla portaerei ammiraglia Uss Nimitz. Orville Schell, il direttore dell’Asia Society e l’esperto di Cina più ascoltato da Hillary Clinton, commenta così: “Pechino sta imparando a usare con l’America il bastone e la carota, tiene Washington sulla corda, alterna minacce e blandizie”.

Per una singolare coincidenza, proprio in questi giorni di alta tensione s’inaugura al China Institute di New York una grande mostra su Confucio. È il filosofo dell’ottavo secolo avanti Cristo di cui il regime cinese si “appropria” il pensiero rivisitandolo, per farne il teorico di un moderno paternalismo autoritario. La mostra su Confucio, così come tutto il China Institute, è un’iniziativa di Stato finanziata dalla Repubblica Popolare. “Confucius: his Life and Legacy” costa meno di una partecipazione azionaria in Apple, ma segnala il nuovo fronte della penetrazione cinese che si è aperto. L’offensiva culturale, sostenuta dalla potenza economica, sfida l’Occidente anche sul terreno delle idee. Il mandarino ha soppiantato lo spagnolo per la rapidità di diffusione come prima lingua straniera nelle scuole americane. Quando è uscita la notizia che il boom delle iscrizioni ai corsi di cinese alle elementari è sussidiato generosamente da Pechino (con borse di studio, formazione degli insegnanti, regali di materiale didattico e audiovisivo) sul New York Times sono apparse lettere di protesta dei genitori.

“È inaccettabile – ha scritto un padre allarmato – che la politica scolastica degli Stati Uniti venga decisa da un governo straniero”. E quale governo. Certo non suscitano lo stesso allarme i sussidi di Nicolas Sarkozy per lo studio del francese all’estero. La promozione della civiltà cinese non viene percepita dall’Occidente come un fenomeno puramente culturale. Minxin Pei, ricercatore della Fondazione Carnegie, ricorda che America e Cina sono divise da “insormontabili differenze in termini di valori, sistemi politici, visione dell’ordine internazionale, e interessi geopolitici”. Quasi per un crudele scherzo del destino, i finanziamenti della Repubblica Popolare per lo studio del mandarino dilagano nelle scuole americane proprio quando gli Stati Usa sull’orlo della bancarotta (dalla California alla Florida) devono tagliare gli stipendi agli insegnanti e ridurre gli orari delle lezioni. Martin Jacques, lo studioso britannico autore di un libro-shock che vuole aprire gli occhi all’America (“When China Rules the World”: quando la Cina dominerà il mondo) sostiene che questo è proprio uno degli effetti più dirompenti della crisi economica dell’Occidente: “La Cina è un modello di Stato che funziona. D’ora in avanti il dibattito sul ruolo dello Stato nelle società moderne non potrà più prescindere dall’esempio cinese”. Ian Buruma, un altro esperto di Estremo Oriente che abbiamo intervistato per questa inchiesta, sottolinea che “di fronte alla crisi delle liberaldemocrazie occidentali, il fascino della Cina avanza anche in aree del mondo vicine a noi”.

Non passa giorno senza che il raffronto con la Cina sia motivo di ansia e frustrazione per la superpotenza leader. La settimana scorsa Barack Obama ha finalmente firmato il via libera ai fondi federali per avviare il progetto dell’alta velocità in California e in Florida. Per il presidente doveva essere un fiore all’occhiello, una di quelle grandi opere infrastrutturali che aveva annunciato fin dal suo insediamento. Ma la Tav di Obama è stata così liquidata l’indomani da un giornale “amico”, il New York Times: “Se tutto va bene, il primo treno ad alta velocità comincerà il servizio nel 2014 fra Tampa e Orlando, una tratta di sole 84 miglia. Ma a Capodanno i viaggiatori cinesi hanno inaugurato il nuovo treno ad alta velocità, 664 miglia in tre ore, da Guangzhou a Wuhan. Entro il 2012 le linee ad alta velocità in funzione saranno 42, tutta la Cina sarà collegata”. Un raffronto amaro. Tanto più se viene fatto quando Washington è reduce da una “chiusura per neve” di una settimana. La capitale federale della nazione più ricca del pianeta, per penuria di spazzaneve, si è arresa alle intemperie e ha smesso di funzionare per sette giorni consecutivi. Nella gara tra due modelli di Stato, è l’America che si ritrova in serie B.

Forse nessuno più di Obama ne è consapevole. Per questo presidente il confronto con la Cina è diventato una costante, il tema che ricorre più spesso nei suoi discorsi. Obama cerca di spronare il suo paese, come John Kennedy fece per la gara con l’Unione sovietica nella conquista dello spazio dopo il sorpasso dello Sputnik. Usando la Cina come “benchmark”, come punto di riferimento, Obama spera di rovesciare le umiliazioni in positivo, di trasformarle in adrenalina, in altrettanti stimoli a riconquistare la leadership. Avverte che “la Cina ci sta dando dei punti anche sul terreno della Green Economy, produce più pannelli solari e pale eoliche di noi”. Gli esperti energetici disegnano un quadro inquietante. In un futuro non troppo lontano, l’America potrebbe scoprirsi due volte dipendente: dal petrolio arabo e dalle tecnologie verdi (pannelli fotovoltaici, batterie per auto elettriche) sempre più made in China.

Ma l’establishment e il sistema istituzionale americano sembrano intorpiditi, incapaci di reagire alle frustate del presidente. Dall’energia all’ambiente le riforme languono, bloccate da veti politici e resistenze lobbistiche. Di fronte all’autoritarismo cinese la democrazia americana arranca. Gli Stati Uniti perdono colpi nella ricerca scientifica, penalizzata dai tagli di bilancio, mentre gli investimenti cinesi in questo campo aumentano ogni anno a ritmi vertiginosi, di due cifre percentuali. Dalle università americane comincia un riflusso di talenti, numerosi cervelli asiatici – cinesi e anche indiani – tornano in patria attirati da nuove opportunità.

La gara tra America e Cina non lascia indifferenti gli europei. Non è un caso se l’avvertimento più severo agli americani oggi viene da Martin Jacques, un intellettuale inglese, cittadino di un altro impero decaduto che dovette cedere il suo primato. Noi occidentali, sostiene Jacques, ci siamo illusi che la Cina a furia di modernizzarsi sarebbe diventata sempre più simile a noi. La storia dimostra al contrario che la diversità cinese è profonda, radicata, irriducibile. La mancanza di democrazia non è un handicap nel breve termine: anche la maggior parte delle nazioni europee (e il Giappone) governarono la modernizzazione e lo sviluppo attraverso regimi autoritari. E l’egemonia cinese – espandendosi dal denaro alla politica, dalla tecnica alla cultura – può riproporre in forma moderna quella che fu l’antica relazione tra l’Impero Celeste e i suoi vicini: un “sistema tributario” di Stati vassalli, satelliti ossequiosi.

http://www.repubblica.it/esteri/2010/02/18/news/egemonia_asiatica-2340725/

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