Dialetti?

Ebbene, confesso che mi piacerebbe davvero sentire un tg in veneto: sai che divertenti le notizie sulle “coe ‘tea tiraca de Mestre” (*), magri anche con quella erre così ben ammorbidita dei veneziani veraci!

Però poi penso che, da quando è nato, l’uomo ha costantemente sentito la necessità di sostituire i primordiali grugniti con modi sempre più elaborati e raffinati per farsi intendere da chi gli stava vicino, innanzi tutto i familiari, poi dai vicini, poi da tutti coloro che formavano un villaggio poi… e così via aggregandosi fino a formare, man mano che nel corso dei millenni si formavano i popoli e si conquistavano territori, le “nazioni”, ognuna con una sua propria “lingua”.

Così si sono formati gradualmente le lingue, ognuna fatta delle stesse parole e con grammatiche più o meno elaborate, affinché gli individui di ogni gruppo, villaggio, regione, potessero intendersi fra loro, restare uniti, difendersi dalle aggressioni di altre popolazioni con le quali non potevano intendersi e a loro volta sottometterne altre di cui non parlavano i linguaggi ed espandersi diffondendo la loro lingua a spese di altre che andavano scomparendo.

Con il linguaggio si è sviluppata anche la “cultura” dei vari popoli. Più aumenta la possibilità di comunicare con altri, maggiore è la possibilità di intesa senza il ricorso alla forza.

L’Italia ha raggiunto un’unità di lingua, se non ancora un’unità culturale. Ed anche la lingua italiana sta subendo, purtroppo, la sua involuzione, perché la necessità di comunicare e di intendersi nella maniera migliore si è estesa ormai a tutto il mondo. Lo vediamo quando leggiamo ed ascoltiamo i “media”: dov’è ormai il buon italiano? Non ci accorgiamo forse che sta scomparendo, soppiantato da un ibrido di cattivo italiano e di cattivo inglese? Ed è logico purtroppo, dato che l’inglese d’oggi, per la sua semplicità grammaticale ed anche per la sua minor mole di vocabolario, si presta ad essere rapidamente assimilato dalla gran massa della popolazione.

Giacché per capirsi reciprocamente gli uomini hanno bisogno di un linguaggio comune, con parole che abbiano lo stesso significato per chiunque si esprima con quel linguaggio; quante più parole si sanno (quanto più vasta è la cultura), tanto più sarà assicurata l’intesa: se io dico “pace” e il mio interlocutore a quella parola attribuisce il significato di “guerra”, potrà mai esserci un accordo tra noi? È un esempio banale perché queste parole sono di uso comune; ma che cosa pensare ove si sentisse dire, (come mi è capitato di sentire da un corrispondente RAI dall’estero!), che il tal ministro straniero si è espresso con aria “corrusca” nei nostri confronti? Posso forse intuire che volesse dire corrucciato, ma non proprio così tanto da emettere bagliori accecanti!

In conclusione: lasciamo pure che qualche sprovveduto dica che è necessario insegnare a scuola i dialetti; tuttavia, come fortunatamente abbiamo la libertà di dire qualsiasi cosa, sia pure gigantesche … scusate…“monate” (per chi non è veneto: in italiano letterario sarebbe un qualcosa che comincia con co- e finisce in –ate, e non è un dentifricio), possiamo altresì usufruire della libertà di prontamente cestinarle e metterci una pietra sopra. Pesante.

I nostri ragazzi hanno già molte cose da imparare a scuola ed avrebbero bisogno di insegnanti preparati, in primo luogo nell’insegnamento della nostra lingua. I dialetti lasciamoli alle famiglie ed ai compagni di scuola. Sarà molto più utile se saranno questi ad insegnar loro un buon dialetto vivace. Insegnato a scuola, è la volta che il dialetto muore per davvero.

Distinti saluti

Dott. Alberto Zisa
Romano d'Ezzelino (Vicenza)

(17 settembre 2009)

http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=73610&sez=HOME_MAIL

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