«Dedollarizzazione», un obiettivo di Cina, Russia, ma anche Francia e Germania

Cina, Russia (e qualcuno nell’Ue): l’ultima battaglia contro il dollaro

L’ago della bilancia

In un articolo sul dollaro pubblicato recentemente sulla rivista americana Project Syndicate, Nouriel Roubini, il bocconiano di origine iraniana che fu consigliere economico della Casa Bianca durante la presidenza di Bill Clinton, ci ricorda che la moneta di riferimento per il sistema economico e finanziario è sempre stata quella del Paese egemone: la Spagna nel XVI secolo, l’Olanda nel XVII, la Francia nel XVIII, la Gran Bretagna nel XIX. Non è sorprendente quindi che dalla fine della Seconda guerra mondiale la moneta di riferimento, nel mondo della globalizzazione, sia stata il dollaro. Ma è altrettanto comprensibile che molti si chiedano sino a quando il dollaro continuerà a essere la moneta del mondo e sino a quando gli Stati Uniti di Donald Trump (o domani quelli di Joe Biden) debbano continuare a trarre considerevoli vantaggi da una moneta che non è più, ormai, quella della potenza egemone. Esiste una nuova parola («dedollarizzazione»), usata sempre più frequentemente dai Paesi che maggiormente desiderano privare il dollaro delle sue prerogative. Lo desidera la Cina (benché sia ancora proprietaria di bonds americani per più di mille miliardi di dollari). Ha già combattuto con gli Stati Uniti la guerra dei dazi e oggi è minacciata da Trump di nuove sanzioni, principalmente finanziarie.

Lo desidera la Russia che ha già cominciato a fare incetta di oro e ne possiede per il valore di 537 miliardi di dollari. E lo desiderano infine, anche se con maggiore discrezione e riserbo, alcuni Paesi della Unione Europea (fra cui Francia e Germania) che fanno parte della Eurozona.

Questa non è la prima battaglia contro il dollaro. Nel 1965, durante una delle sue periodiche conferenze stampa al Palazzo dell’Eliseo, il Presidente De Gaulle propose il ritorno al sistema aureo. Il progetto era stato attentamente preparato dal suo consigliere finanziario, Jacques Léon Rueff, e raccolse qualche consenso. Ma De Gaulle, in molti ambienti europei, aveva fama di essere troppo critico degli Stati Uniti, e molto numerosi erano gli uomini politici per cui l’America era un necessario contraltare alla potenza sovietica.

Il ritorno al sistema aureo divenne comunque ancora più difficile quando, nell’agosto del 1971, Richard Nixon, presidente degli Stati Uniti dal 1969, sospese la convertibilità del dollaro in oro. La politica sociale del suo predecessore e la guerra del Vietnam avevano notevolmente aumentato il deficit del bilancio americano e le richieste di oro per il pagamento dei debiti erano sempre più numerose.

La decisione di Nixon era unilaterale e molto criticabile. Ma il clima politico era ancora quello della guerra fredda, e a molti Paesi sembrò inopportuno polemizzare con uno Stato che, grazie alla sua potenza militare, garantiva gli equilibri internazionali. Oggi, in un clima alquanto diverso il mondo non può fare a meno di chiedersi se il dollaro possa ancora essere la sola moneta di scambio per i protagonisti della globalizzazione.

Sergio Romano | Corriere della Sera | 30.8.2020

 

 

 

 

 

 

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