"Italiano televisivo" offre banche dati, trascrizioni di trasmissioni, video, studi per capire com'è cambiata la lingua parlata del piccolo schermo. E come ha influenzato quella quotodiana
La televisione, si sa, ha contribuito ad unificare l’Italia dal punto di vista linguistico. Ma come è cambiato l’italiano del piccolo schermo dalla metà degli anni Cinquanta, quando il tubo catodico fece il suo ingresso nelle case degli italiani, ad oggi? Sull’argomento l’Accademia della Crusca, in collaborazione con le Università di Firenze, Catania, Milano, Genova e della Tuscia, ha aperto il Portale dell’italiano televisivo (www.italianotelevisivo.org) dove non solo si mettono a disposizione materiali di studio, video d’archivio e di oggi (con opzione interattiva: la Crusca invita chi possiede documenti importanti a condividerli su web), ma si può attingere a due banche dati per effettuare ricerche linguistiche storiche, sociali, o addirittura per genere televisivo. Lit 2006 (Lessico Italiano Televisivo) e Dia-Lit, con le numerose ore di trasmissione trascritte, permettono un primo studio sistematico della lingua parlata in tivù.
Studio che ha uno spartiacque negli anni Settanta, quando si passa dal monopolio Rai alle tivù private, e dal bianco e nero al colore: "Fino ad allora l’italiano televisivo era stato molto vicino allo standard letterario con intenti educativi; poi, con l’avvento di altri poli televisivi che spingono molto sull’intrattenimento, la lingua televisiva finisce per riflettere quella parlata nel quotidiano – spiega Marco Biffi, responsabile dell’unità di studio dell’Università di Firenze – Negli ultimi anni l’interazione con altri tipi di comunicazione, come internet, ha aperto una nuova fase". Oggi in tivù predominano i termini tecnici rubati al mondo dell’economia. Di cui si fa abuso. Una su tutte: spread. "E’ un impatto che rientra nelle logiche di una società dove l’apparenza conta più della sostanza – sostiene Biffi – e che determina la sciatteria linguistica. Quindi si utilizzano termini senza competenza, in modo improprio. Come la rinuncia del Papa al proprio pontificato, che molti hanno definito come "dimissioni"".
Nella televisione di oggi, dice Nicoletta Maraschio, presidente della Crusca, "c’è un utilizzo dell’iperparlato inserito in un contesto di spettacolarizzazione della cronaca e della politica che spesso sfocia nell’esasperazione verbale di sentimenti e atteggiamenti", come la tivù del dolore o del gossip quotidiano insegnano (da "La vita in diretta" a "Pomeriggio cinque"): "La ricerca di audience e di ritorno economico ha portato ad un impoverimento del linguaggio televisivo. Non accidentale, ma voluto". E’ forte, insomma, l’idea di una "regia occulta" che rende fittizio anche l’italiano gergale collegato alla presenza della persona qualunque in tivù attraverso i reality o i talent-show, con i loro tormentoni verbali: da "che attitude!" del "Grande fratello" allo "scialla!" di "Amici". "C’è il dubbio – spiega Maraschio – che l’italiano parlato da queste persone sia il frutto di una regia ben determinata, di un condizionamento degli autori e della rete. Una messa in scena".
Sull’ingresso di parole inglesi nella nostra lingua già la tivù s’interrogava e ironizzava negli anni Sessanta in gustosi sketch di Ugo Tognazzi. Il problema è che la stessa televisione ha finito per cadere nella trappola: lo sceneggiato è diventato fiction, il dibattito talk show. Ma non dobbiamo scandalizzarci, conclude Maraschio: "L’attingere al modello angloamericano indica una trasformazione dei generi: i "romanzi televisivi" hanno ceduto il passo alla serializzazione di storie o alla spettacolarizzazione dei dibattiti, come avviene nelle tivù d’oltre Manica e d’oltre Oceano. Sono altri i casi in cui l’acquisizione di parole straniere è da stigmatizzare perché inutile: come il termine "Raieducational".
(di Fulvio Paloscia, da firenze.repubblica.it del 10/03/2013)