Bye bye Londra! Ora è tempo dell’eurofrancese

Bye bye Londra! Ora è tempo dell’eurofrancese, vera lingua franca dei 27 che renda l’Europa più credibile e intelligente

Viva la patria, viva tutte le patrie e naturalmente viva l’Inghilterra: ma adesso che gli inglesi si sono isolati perché mai la lingua franca dell’Unione europea deve continuare a essere l’inglese?
Non suona assurdo?
Nelle strade di Bruxelles si parla francese (e fiammingo, ma il fiammingo lo lascerei perdere: qualcuno ha mai letto Gezelle? Conscience? Van Beers? Qualcuno, anzi, ha mai sentito nominare questi letterati importantissimi nelle Fiandre?). Dopo l’euroinglese ci vuole l’eurofrancese. Che la lingua franca del Vecchio Continente debba essere il francese lo dice l’etimologia. E lo dice la storia: il francese è stata la lingua delle élite (parola per l’appunto francese) e della diplomazia nel Settecento, nell’Ottocento, nel primo Novecento, venendo poi retrocessa per la vittoria militare angloamericana della Seconda guerra mondiale. Ma non credo che Boris Johnson e Joe Biden abbiano intenzione di bombardarci un’altra volta… Che la prima lingua dell’Unione europea debba essere il francese lo dice innanzitutto il presente.
Chi è il più grande romanziere vivente? Michel Houellebecq. Chi è il più grande storico dell’arte vivente? Jean Clair. Sono francesi o comunque scrivono in francese Edgar Morin, Milan Kundera, Marc Augé, Gabriel Matzneff, Régis Debray, Jean-Luc Nancy, Gilles Clément, Renaud Camus, Jean-Luc Marion, Rémi Brague, Chantal Delsol, Pascal Bruckner, Bernard-Henri Lévy, Catherine Millet, Alain Finkielkraut, Pierre Manent, Richard Millet, Robert Redeker, Emmanuel Carrère, Eric Zemmour, Michel Onfray, Olivier Rey, Amélie Nothomb, Fabrice Hadjadj, oltre che il Cardinale Sarah, cattolica speranza. Se confrontassimo questa lista (alquanto parziale, non ho citato i non tradotti in Italia) con una lista analoga di autori italiani ci sarebbe da mettersi a piangere. I grandi scrittori italiani sono tutti morti. La nostra letteratura è come se si fosse spenta venti o trent’anni fa: Arbasino, Ceronetti, Zanzotto non hanno lasciato eredi, e figuriamoci Oriana Fallaci. Manlio Cancogni, ricordando i suoi anni Trenta, vissuti a Roma, disse: “Tutti erano orientati verso la letteratura francese, la Francia era il nostro paese”. Potremmo affermare qualcosa del genere noi che in questi anni Venti ci abbeveriamo alle pagine di Giulio Meotti: siamo orientati verso i libri francesi e vorremmo ne venissero tradotti molti di più. Forse per spiegare la differenza di statura tra fratelli neolatini, fra transalpini e cisalpini, ci si deve rivolgere a Hölderlin: “Là dove c’è il pericolo cresce anche ciò che salva”. La cultura francese, per via della grossa deculturante presenza musulmana, corre un pericolo più immediato della cultura italiana. Questa ipotesi sembra confermata dal fatto che la Francia, già palcoscenico della pittura mondiale, non vive un buon momento artistico né tanto meno un buon momento musicale: il primato francese è esclusivamente relativo al pensiero, e dunque alla lingua che quel pensiero veicola.
Poi è chiaro che fra poco, non vedo l’ora, arriverà un traduttore automatico potentissimo, una app prodigiosamente poliglotta, e si potrà parlare in sardo ed essere capiti in Lapponia. Già adesso Google Traduttore si comporta piuttosto bene e non vedo perché iscriversi a Lingue o a quei corsi privati faticosissimi: sono gli ultimi anni di incomprensione e poi si potranno leggere tutti i libri del mondo senza bisogno di traduzioni editoriali (non so se ci sarò ma mi piace sognarlo). Per intanto, l’eurofrancese servirebbe a essere più credibili: come puoi atteggiarti a europeo se parli la lingua di chi ha rifiutato l’Europa? E più intelligenti, collegandosi ai migliori intellettuali del momento.

Camillo Langone | Il Foglio Quotidiano |

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