Belle le serie televisive di produzione italiana e le società straniere ci comprano

Le serie tv italiane sempre meno made in Italy.  Perché funzionano

Stand by me e Picomedia sono solo le ultime di un lungo elenco di società di produzione diventate straniere. Il successo della nostra serialità tra shopping dall’estero e rapporto con Netflix

Se un fondo di “private equità” americano decide di mettere un piede nel mondo dell’audiovisivo, acquistando due società di produzione italiane, qualcosa vuol dire. Almeno un paio: che la televisione è un business in crescita e che i produttori italiani non sono così male. La notizia è che a metà aprile il fondo Usa Oaktree, specializzato in immobiliare e fondi pensione, ha dato vita ad Asacha Media Group annunciando l’acquisto delle quote di maggioranza delle società Stand by me, fondata da Simona Ercolani, e Picomedia di Roberto Sessa.
In realtà è solo l’ultimo capitolo di una stagione di caccia iniziata un po’ di anni fa e che pare inarrestabile. Nel 2015 Wildside (che ha prodotto “The Young Pope” e “L’amica geniale”) viene acquistata da Fremantle, a sua volta controllata dal gruppo tedesco RTL-Bertelsmann. L’anno successivo Zodiak (che aveva già assorbito la Magnolia di Giorgio Gori, un pioniere) si è fusa con i francesi di Banijay e i soci italiani di De Agostini sono diventati minoranza. Da una costola di Magnolia nasce anche Cross Productions (“Rocco Schiavone”, “Il Cacciatore”) che appartiene alla tedesca Beta Film Gmbh. Nel 2017 è stata Cattleya (“Gomorra”, “Zero Zero Zero”) a passare di mano e diventare di proprietà del gruppo televisivo britannico ITV, mentre nel 2018 Fabula Pictures (“Baby”) viene acquisita dalla francese Federation Entertainment. Stessa sorte di Palomar (“Il Commissario Montalbano”, “Braccialetti rossi”) che l’anno scorso è passata al gruppo francese Mediawan.
Sulla carta lo shopping straniero è una brutta notizia, anche perché in effetti non succede mai il contrario, e cioè che una nostra società acquisti una straniera. Il problema esiste e ha molte parentele con quello che ha indebolito altri settori della creatività italiana come la moda e il lusso: la scarsa capacità finanziaria, la cronica difficoltà di cercare capitali sul mercato, la tendenza a passare all’incasso appena si presenta l’occasione.
In realtà le cose sono un po’ più complicate e riguardano la grande trasformazione che sta attraversando il mondo della produzione indipendente italiana. Uno status che, per come lo abbiamo conosciuto, non esiste quasi più eppure condiziona ancora investimenti e finanziamenti.
Il caso di Roberto Sessa è particolarmente interessante. Dopo aver venduto alla multinazionale Grundy la propria società di produzione ed essere diventato AD di Grundy Italia, nel 2009 decide di lasciare l’incarico e di creare un’altra società indipendente, oggi passata in maggioranza al fondo Usa. Racconta Sessa: “Fino a pochi anni fa una multinazionale acquistava una società italiana per entrare nel nostro mercato televisivo; oggi ci comprano perché interessa la creatività e la cultura italiana e si pensa abbia un potenziale per i mercati mondiali. E infatti il controllo creativo resta quasi sempre in Italia: siamo considerati partner e restiamo alla guida delle nostre società”. Asacha Media Group, per esempio, avrà un management prevalentemente francese ma sede a Parigi e a Roma, e punterà anche ai mercati di Germania, Russia, Turchia.
Che serie e film tv made in Italy possano piacere ai mercati internazionali è vero ormai da molti anni. “Un processo iniziato sulla scia del successo di “Gomorra” e che il tax credit alle serie tv ha accelerato, anche perché il ruolo dello showrunner in Italia è quasi sempre svolto dal produttore” è l’opinione di Chiara Sbarigia, direttore generale di APA, l’Associazione dei produttori dell’audiovisivo. Il successo internazionale di serie tv come “Il Commissario Montalbano”, “I Medici” e “Il nome della rosa” conferma che un certo immaginario molto italiano trova un mercato, ed è in sintonia con una tendenza della serialità mondiale a premiare prodotti non mediamente “internazionali” ma con un senso del luogo molto preciso. “L’Amica geniale” è diventata la prima serie non in lingua inglese a essere venduta in Cina su tre diverse piattaforme di streaming. I film e le serie tv ai quali sta lavorando Picomedia, per esempio, riguardano prodotti italianissimi anche un po’ d’antan come “I promessi sposi”, le commedie di Eduardo De Filippo, “La storia” di Elsa Morante, “La scuola cattolica” dal romanzo di Edoardo Albinati.
Anche i numeri delle co-produzioni confermano che il profilo internazionale è ormai avviato: secondo una ricerca dell’istituto E-Media per APA siamo passati da 10 coproduzioni nel triennio 2015-2017 a più di 20 dal 2018 al 2020.
Ma in un mondo che si è improvvisamente aperto possiamo ancora parlare di produttori indipendenti in senso tradizionale? Un produttore si definisce indipendente se mantiene la titolarità dei diritti di quello che produce e non ha legami di controllo e collegamento con i gruppi televisivi. Sulla carta, la costruzione di gruppi europei dell’audiovisivo rafforza il potere negoziale nei confronti di broadcaster e piattaforme come Netflix o Amazon Prime Video. La realtà spesso è diversa, anche perché il modello di business dei servizi on demand si basa sulla possibilità di distribuire lo stesso prodotto in modo orizzontale in tutto il mondo, superando la territorialità verticale dei diritti e con un ritorno maggiore sull’investimento. Questo aumenta il potere contrattuale nei confronti del produttore che, in passato, faceva margine finanziario proprio attraverso la vendita all’estero (i cosiddetti diritti secondari). Nel settore si racconta che Netflix abbia acquistato i diritti del romanzo “Fedeltà” di Marco Missiroli pagandoli dieci volte tanto la cifra che avrebbe potuto spendere un produttore indipendente.
La notizia recente dell’ingresso di Netflix in ANICA, l’associazione dell’industria cinematografica e audiovisiva, da un lato riconosce alla società californiana lo status di interlocutore e investitore stabile in contenuti di qualità, ma scontenta coloro che temono di ritrovarsi in casa una controparte troppo forte. “Summertime”, lanciata qualche giorno fa sulla piattaforma, è solo l’ultima di un elenco di serie tv prodotte da Netflix in Italia, alcune delle quali – come “Baby” – hanno trovato un pubblico internazionale. La prossima apertura di una sede a Roma sembra confermare la volontà di Netflix di puntare sull’Italia.
Anche l’indipendenza dai gruppi tv sembra appartenere a un’altra epoca: molte delle società italiane passate di mano ora sono controllate da gruppi televisivi o di telecomunicazione. Esemplare il caso di Cattleya che, nel 2016, fu molto vicina a diventare della francese Vivendi (allora a un passo dall’acquisto di Mediaset) e fece dietrofront per non perdere lo status di produttore indipendente, status che mantiene ancora in Italia e in Europa, ma non in Gran Bretagna essendo controllata da ITV.
La revisione della Direttiva europea sui servizi media ha fissato al 30% la quota minima di opere europee che devono comparire nel catalogo dei fornitori di servizi di media audiovisivi e ha imposto, per la prima volta, quote di investimento in produzioni indipendenti anche per gli Over the top come Netflix. La Francia ha fissato al 25% la quota da investire in opere di produzione indipendente anche per i servizi on demand a pagamento. L’Italia, invece, ha scelto un’altra strada: ha ammorbidito le quote fissate dalle riforma Franceschini portandole al 12,5%, di cui la metà riservata a opere di “espressione originale italiana”. I diritti possono essere ceduti però non per sempre, e la trattativa sulla loro durata è una partita che si sta giocando sottotraccia, ma che sarà decisiva per il destino della nostra produzione indipendente. ANICA ha aperto le porte a Netflix nella speranza di una soluzione concordata che soddisfi tutta la filiera. Un problema potrebbe nascere dal fatto che in Italia esistono ancora due associazioni diverse per i produttori indipendenti, ANICA e APA, a rappresentare società che ormai fanno le stesse cose, e in una delle due ora siede anche la controparte.
Un altro paradosso che potrebbe essere spazzato via da quella che si annuncia come l’ultima frontiera del copyright: i diritti dei prodotti audiovisivi legati alle persone fisiche garantiti dalla blockchain. Un capitolo che si è già aperto altrove ma non ancora in Italia.

Giovanni Cocconi | huffingtonpost.it | 5.5.2020

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