Al Parlamento europeo si dice il peccato ma non il peccatore
Bruxelles. Se questo giornale uscisse a Parigi non potremmo scrivere quel che stiamo scrivendo. In Francia, dire, come ha fatto l'eurodeputato indipendentista britannico Nigel Farage, che un signore è stato condannato per un reato amnistiato dal presidente della Repubblica, significa sottoporsi a un procedimento penale. Fortunatamente, il mandato d'arresto europeo non è ancora in vigore e, quindi, la storia di Jacques Barrot si può raccontare. L'attuale vicepresidente della Commissione europea, incaricato ai Trasporti, è stato condannato nel 2000 per finanziamento illecito al suo partito, reato preventivamente amnistiato, nel 1995, da Jacques Chirac. Invece, non farà così il Parlamento europeo, pronto nel censurare le opinioni altrui – in particolare quelle di una strega cattolica – ma non abbastanza gagliardo da difendere sempre la trasparenza e l'onestà delle istituzioni europee.
E' proprio dietro al tecnicismo giuridico francese che si nasconderà l'Europarlamento per chiudere il “caso Barrot”: “Non si possono chiedere le dimissioni di un commissario per una condanna che, pur essendoci stata, giuridicamente non esiste più e che non può essere evocata pubblicamente”. Questo è quanto emergerà dalla conferenza dei presidenti di domani, che dovrà analizzare il parere del servizio giuridico cui si sono rimessi i leader parlamentari per valutare le conseguenze da trarre dalla mancata menzione nel curriculum vitae di Barrot della condanna amnistiata. A Bruxelles sono in molti a chiedersi le ragioni della marcia indietro dei capigruppo del centrosinistra. Nel fine settimana, il socialista Martin Schulz e il liberale Graham Watson si erano spinti fino a chiedere le dimissioni del commissario francese. Ma lunedì tutto è rientrato, dopo una lettera in cui Barrot spiega che “non c'è stata volontà di dissimulare i fatti o le condanne”, perché “all'epoca erano state oggetto di abbondante pubblicità” e “mai l'onestà personale è stata messa in discussione”. Il miracolo è interno alle logiche parlamentari. Il gruppo socialista è venuto a più miti consigli quando la componente francese – delegazione nazionale più forte – ha ricordato a Schulz che gli scandali che hanno colpito tutti i partiti d'oltralpe potrebbero aver coinvolto anche qualcuno dei suoi. Il liberale Watson si è limitato a “consigliare le dimissioni”, dopo le proteste dell'Udf francese, cui il Centro dei democratici sociali di Barrot era apparentato all'epoca della condanna. Il verde Daniel Cohn Bendit ha chiesto di “non focalizzarsi su un unico caso”: ci sono anche l'olandese Neelie Kroes e la danese Mariann Fischer Boel.
Chi ha un problema è José Manuel Durao Barroso. Dopo aver venduto l'anima al Parlamento sul caso Buttiglione, il nuovo presidente della Commissione rischia di sottomettersi a un ricatto continuo. Lo dimostra il caso Barrot, laddove gli eurodeputati francesi dell'Ump e dell'Udf hanno minacciato una rappresaglia sul britannico Peter Mandelson, commissario al Commercio, per due volte silurato dal governo Blaìr: nel 2002 per essersi interessato alla domanda di cittadinanza britannica di un ricco e controverso uomo d'affari indiano. Srichand Hinduja, e nel 1998 per aver preso in prestito circa 460 mila euro dal sottosegretario al Tesoro, Geoffrey Robinson. Durante l'audizione parlamentare, Dlandelsou ha ammesso che “l'esperienza come ministro è stata più breve di quanto desiderato. per una serie di motivi sfortunati che non ho difficoltà a spiegare e riguardo ai quali inchieste successive mi hanno discolpato dall'accusa di atti illeciti”.
L'ipotesi di vedere aprirsi un altro scontro con il Pe ha spinto Barroso a chiamare Schulz per chiedergli di calmare la situazione. “Barroso ha stretto un'alleanza con il diavolo socialista, sacrificando Buttiglione, e domani ne pagherà le conseguenze”, dice un deputato popolare. “Gli do quattro mesi”, lancia Cohn Bendit. il tempo che emerga il primo conti itto d'interessi per Kroes.