A Taiwan l'indipendenza passa per la lingua
L'isola ha cambiato il nome ufficiale del “cinese” per rimarcare la propria distanza da Pechino
di francesco sisci
La notizia a leggerla dall’estero, da fuori della cultura cinese, sembra astrusa, folle: il governo di Taiwan ha deciso di non chiamare più “cinese” la lingua ufficiale dell’isola, che comunque al di là dal cambio di nome rimarrà sempre la stessa.
La questione però è importante ed ideologica, così come la rivoluzione francese volle battezzare tutti “cittadini” e quella comunista passò alla parola “compagno” mentre i fascisti preferirono “camerata”. E lo è tanto più in Cina dove Confucio, padre, padrino e padrone della patria, spiegava ming zheng yan shun, bisogna usare i nomi corretti perché il discorso poi sia consequenziale.
Taiwan è formalmente parte della Cina ma è di fatto indipendente. Oggi il governo dell’isola, occupato dal partito democratico progressista (Pdp), vuole invece una dichiarazione unilaterale di indipendenza formale.
Pechino però si oppone minacciando fuoco e fiamme perché teme che la dichiarazione possa accendere spinte indipendentiste in regioni come Tibet o il Xinjiang con una popolazione a maggioranza non Han, l’etnia maggioritaria in Cina e a Taiwan.
Il Pdp affronta le elezioni presidenziali a marzo e in questa ottica la carta dell’indipendenza eccita gli animi e dovrebbe aiutare a raccogliere consensi.
In questo contesto cambiare il nome stesso della lingua usata tocca un nervo scoperto.
La proposta è quella di far cadere la dizione zhongwen, con riferimento al paese zhong guo, stato del centro, Cina, a hua yu, lingua degli hua (come si chiamavano tra di loro in cinesi nei tempi antichi e come si chiamano oggi i cinesi all’estero hua ren) senza riferimento al Paese.
Cioè, dice il Pdp, come ci sono cinesi all’estero, hua ren, che riconoscono la loro appartenenza culturale alla civiltà cinese senza per questo essere cittadini della Cina, zhong guo ren, così può essere per Taiwan, la sua lingua e la sua gente.
Solo che il nome della lingua è in realtà una faccenda estremamente complicata.
Il “nuovo” nome significa “lingua civile, fiorita”, come se le altre fossero barbare. “Huayu” risale a un tempo in cui la Cina in realtà si definiva “tianxia” tutto quello che è sotto il cielo, perché i cinesi pensavano che fuori dal loro Paese non ci fosse altro di importante. In altre parole la parola dà un velo di arroganza, di superiorità, di cultura eletta.
Anche per questo nel 1949, la neonata repubblica popolare cinese scelse per la sua lingua la parola “hanyu”, lingua degli han (non della Cina, zhongguo), in segno di rispetto per le altre minoranze nazionali che popolavano il Paese e che avevano uno status uguale a quello degli han.
I nazionalisti invece, rifugiatisi a Taiwan, allora volevano affermare la centralità della loro lingua su tutte le altre e la chiamarono zhongwen, con il riferimento al paese e la sottolineatura di importanza rispetto ad altri idiomi usati nel Paese per esempio, il mongolo o il tibetano.
Questa differenza si traduceva anche nel nome della pronuncia ufficiale a Pechino di quella che è la lingua scritta universale per tutti gli hanren o huaren.
A Taiwan si chiamava guoyu, lingua nazionale, ad affermare un primato sui vari dialetti; i comunisti invece la chiamarono meno nobilmente putonghua, lingua comune in rispetto degli altri dialetti come il cantonese, lo shanghaiese, o il minnanyu, parlato anche a Taiwan.
A 60 anni di distanza certi ruoli e posizioni politiche sembrano rovesciati.
Pechino ci tiene ad affermare l’unità con l’isola, e quindi fa confusione apposta tra le varie dizioni, tra zhongguoren, che indica gli abitanti della Cina al di là dello loro civiltà o etnia di origine, come tibetani o mongoli, e huaren o hanren, quelli che si riconoscono nella civiltà o nella etnia maggioritaria in Cina.
Taiwan invece vuole sottolineare la sua particolarità rispetto al continente cinese. È dubbio che ci riesca.
Tutti questi nomi per la stessa cosa costruiscono un complicato labirinto di sensi contrastanti che spesso lascia la persona della strada confusa e nel caso dei bambini completamente persi.
A Pechino a sei anni mia figlia, che aveva fatto la prima privatamente, doveva fare un esamino per l’ammissione alla seconda elementare. A vedere la bambina con gli occhi grandi e i boccoli in testa la maestra le chiese prudentemente piano: “sai parlare hanyu (cinese han)?” La bambina sgranò gli occhi terrorizzata si voltò verso la madre e le disse in perfetto cinese: “mamma non so parlare hanyu, come devo fare? io parlo solo zhongwen”.
A Taiwan l’indipendenza passa per la lingua
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